Il maggiore dei beni: fra purezza e il fondo del pozzo

Ci penso spesso di che morte morire. Faccio un breve elenco dei metodi che conosco, solo che io ne voglio una dolce e per quella servono farmaci difficilissimi da rimediare.

È un romanzo piccolo e profondo come una conchiglia. In realtà non ha poche pagine, ma passano senza che il lettore se ne accorga. Racconta una storia trascinante, dai tratti abbozzati lentamente. Il maggiore dei beni di Valeria Caravella non ha fretta di raccontarti il messaggio che custodisce: ti ci guida, con mano ferma e passo lento.

Il nostro protagonista è un piccolo principe oscuro e sospettoso che si sfoga senza riprendere fiato.  Ammantato da un alone di dubbio e una notevole dose di autoironia usa un tono informale per descriversi, nato irrimediabilmente avulso dal mondo. Si chiama Davide e ha quindici anni. Deliri di onnipotenza e senso di inferiorità sono le sue inseparabili compagne di bisboccia.

Davide, grazie alla franchezza della sua estrosità, riconosciuta da lui stesso come una malattia incurabile, induce a fantasticare su queste pagine come davanti a una pellicola. Con pochi brevi accenni si può vedere ogni cosa: volti, scene, gesti. Sarebbe un film amaro e tagliente. La sua sincerità è così netta da far dubitare. È difficile capire se quello che si sta leggendo sia vero senza alcun margine di dubbio o sia frutto, almeno in parte, di un’enfasi puerile frustata.

Il nostro ragazzo parla di se stesso come «il puro» e lotta strenuamente per affermare la propria unicità. Utilizzando la metafora del «pozzo nero» racconta a macchia di leopardo il suo dolore puberale, molto lontano da qualunque schema sociale positivamente riconosciuto.

L’esasperazione convinta con cui la voce narrante galoppa sulle sue disavventure ispira una smorfia complice e nostalgica: l’immedesimazione è inevitabile. Ripensare a tutti i momenti in cui il disagio e la mancanza di informazioni erano i pericoli dietro l’angolo – gli unici pericoli percepiti –  riempie il petto di una tiepida tenerezza. Può far sorridere ricordare quando si era straordinariamente protetti dall’ottusità giustificata di quegli anni di rivoluzione interna, quei tempi che ora appaiono, con gli occhi adulti, così semplici.

La realtà del «pozzo nero»

L’immedesimazione dura poco. Il dolore è vero, come i traumi e le angosce. Davide è il volto di una riflessione costante e buia, la preda di un turbamento adolescenziale così grande da trovare sollievo perfino in un atto di bullismo. L’oscurità di quel momento gli ha regalato la possibilità di giustificare la sua sofferenza: ora ha un motivo reale. Può lasciarsi andare al tormento, alle fobie, ha una ragione, ai suoi occhi e a quelli di tutti. Ora può affliggersi in pace.

Poi ci sono le baracche dove vivono i disperati come lui e il centro educativo dei minori a rischio dove vanno a finire i ragazzi al capolinea. Parla di morte come una medicina salvifica. Sembra si aggrappi alla fine per gestire questo duro inizio di vita.

Davide respira il peso di una diversità difficile da spiegare e da capire, in una parte della vita tanto fragile. La sua voce ricorda che crescere non è solo difficile, ma intenso, violento e spietato. La necessità di trovare un dialogo, una connessione, diventa un’ossessione e uno sgomento.

Non avrei mai creduto che i fatti potessero essere così importanti. Più delle idee, più degli occhi delle persone quando ti parlano.

Nei discorsi che il nostro adolescente rigurgita – riflessione su riflessione – ogni considerazione è gravissima, senza speranza di sfumature. La solitudine è sincera, senza alcun dubbio. È lei la radice di tanta paura, attecchita con sinistra fortuna nel corpo gracile e asessuato del quindicenne. La paura folle della vita, del mondo e della gente; di tutta la gente senza eccezioni. O forse sì, ci sono delle eccezioni, poche, che Davide a stento riconosce.

I satelliti di Davide

Ci sono satelliti nella vita di questo protagonista: c’è Alice, il ricordo di Alice.

Niente di più lontano da una storia d’amore la loro, più che altro una storia di complessi che si scontrano con la  stessa ferocia dei cervi alfa. Anche in questa parentesi sviscerata a sfoglie ci sono un dolore e una confusione talmente intesi da risultare divertenti. Il retrogusto ironico di un amaro buttato giù tutto d’un fiato. Una folle e ilare perpetua disperazione.

Poi c’è la scrittrice, l’«anarchica» come la chiama il nostro ragazzo.  Lei nomi propri non ne ha. Ha tanti nomi comuni, ognuno di loro compone una tonalità della sua forma in divenire nel tempo di Davide.

«Senti bella a me tutto quello che ha a che fare con le cose impure non mi piace e non voglio esserne minimamente coinvolto».

Lei non asseconda le sue fisime, ignora le sua grida, anzi, grida più forte di lui, spiazzandolo, costringendolo alla resa. A una parvenza di normalità. E lui la segue, indotto dall’indifferenza di questa «anziana» trentenne, sguscia dal suo antro, attraversa la strada, addirittura lascia le mura della città senza la supervisione di un “adulto coscienzioso”. Dipinta con poche battute catartiche il suo personaggio è la salvezza, la maturità, la svolta del ragazzo. Rappresenta bene le figure riparatrici che senza accorgersene entrano e stravolgono la vita di altri innalzandola e colorandola. Non esistono etichette definite per questa coppia in continua evoluzione: il loro legame affettivo è vivo di dettagli delle definizioni in contrasto.
Non è amore né amicizia. Sono padre e figlia, fratello e sorella, Davide e la scrittrice.

Marcella Caputo

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