Racconto: Turchese e lapislazzuli – Giuseppe Raudino

Sono seduta accanto al finestrino. Mentre cominciamo la discesa mi sfilo gli auricolari e respiro profondamente. C’è questa nuova canzone che non riesco a togliermi dalla testa. Si intitola Yellow. Chissà poi perché, Yellow. Io adesso vedo solo blu, blu intenso e abbacinante, che va dal turchese vicino la riva al lapislazzuli più lontano. Il Bosforo è bellissimo a quest’ora, dall’aereo. Tanto blu mi invade, fa affiorare ricordi. L’ultima volta che ho fatto scalo a Istanbul è stato molti anni fa, poco dopo essermi laureata in Relazioni Internazionali. Rientravo in Inghilterra, definitivamente, per lavorare alle Nazioni Unite. Quanto ho viaggiato, da allora! Roma, Parigi, New York. Ma anche Stoccolma, Praga, Barcellona… La adoro, Barcellona. Mi ricorda il tepore della mia adolescenza, il sole, il mare, il cielo blu, come quello che vedo oltre l’oblò.

«Miss Urquhart, sono venuta a dirle che atterriamo tra venti minuti».

La guardo. Per essere una brunetta, devo ammettere che la hostess ha un taglio degli occhi molto attraente e uno sguardo capace di stregare senza troppe difficoltà… Le avevo chiesto di avvertirmi prima dell’atterraggio. Anche di svegliarmi, se era il caso.

Man mano che scendiamo, le guglie dei minareti scintillano sempre più forte. I rombi, i quadrati, le geometrie bianche e nere delle piazze di fronte alle moschee mi fanno pensare all’unico segno di ordine nel caos della vita turca. Impossibile, da queste parti, essere puntuali o lavorare di precisione. Ho imparato che la vita, quaggiù, segue il ritmo delle passioni che attraversano il cuore della gente. E, infatti, ho perso la coincidenza per Ercan. Dannazione. Dovrò aspettare parecchie ore a Istanbul e prendere l’ultimo aereo per Cipro Nord. La hostess mi ha comunque assicurato che sarò a destinazione prima di mezzanotte. Anche lei deve trovare un certo gusto nell’osservare le persone: non fissava i miei occhi ma una ciocca bionda dei miei capelli. Poi ha abbassato lo sguardo, ha intravisto la suola rossa delle mie scarpe e mi ha sorriso con invidia. Nel ringraziarla, ho toccato il braccialetto con tante pietruzze che da queste parti chiamano l’occhio di Allah. Fuori dell’oblò rivedo gli stessi colori del braccialetto, che non ho mai tolto da quando mi è stato regalato. Chissà che starà facendo Yasin, in questo momento. Non l’ho più sentito, da allora. Se provo a riflettere, non ricordo nemmeno come ci siamo lasciati esattamente, e con quali parole. Ogni tanto mi capita di pensare a lui… Sono stati anni importanti. Ci siamo amati, siamo cresciuti e cambiati insieme. Chissà se lui mi pensa, qualche volta. Chissà se mi odia, addirittura.

Sono ripartita da Istanbul. È notte. Sorvoliamo l’ultimo tratto di mare, dopo aver attraversato l’Anatolia. Un susseguirsi di rollii sempre più insistenti, alternati a brusche perdite di quota, mi fanno capire che Cipro è vicinissima. Con l’ultima virata l’inclinazione è tale che riesco a coglierla interamente. Distinguo con nettezza la parte meridionale, tutta illuminata, e quella settentrionale, quasi al buio. L’isola è squarciata in latitudine come da una lunga ferita che l’attraversa per intero. L’autista ha dissimulato tutto il disappunto per avermi dovuto attendere fino a così tardi. Mi ha sorriso e riverito, è stato gentilissimo, ma certe cose le avverto lo stesso. Alcune sfumature sono proprio impercettibili e si impara a coglierle solo dopo aver abitato a lungo sull’isola. Per esempio, ha fatto anche finta di essere sorpreso quando gli ho detto che avevo studiato a Cipro, tanti anni prima. Io lo so benissimo che ne era già al corrente, che mi sta osservando, che è pronto a registrare nella memoria ogni mia eventuale battuta sulla politica del paese e riferirla a qualche funzionario di polizia che gli arrotonda lo stipendio. Arriva addirittura a farmi qualche domanda indiretta, sperando che io abbocchi; poi capisce che non ho molto da offrirgli, e allora si chiude nel silenzio. Tra un paio di giorni andrò a intervistare degli esponenti politici locali. All’Onu siamo alle primissime fasi di un piano di riunificazione dell’isola e devo riportare direttamente al segretario generale la prossima settimana. Chissà che effetto, incontrare di persona Kofi Annan. Meglio non pensarci troppo, adesso. Sono  finalmente a Cipro e ho davanti due giorni liberi tutti per me. Mi chiedo solo se saranno in grado di spezzarmi il cuore per la nostalgia. Ho voglia di spiaggia, di mare, di una scarpinata tra gli ulivi millenari attraverso sentieri brulli e polverosi. Voglio ripetere, da sola, tutto quello che ho fatto quand’ero ventenne e vedere che effetto fa.

La radio è bassissima. Passa musica locale. Yasin la ascoltava sempre. L’autista canticchia a denti serrati e ticchetta sul volante con quelle sue dita sudaticce, mentre prova a capire a quale velocità stiamo viaggiando. Il cruscotto di questa vecchia Mercedes deve avere da anni una lampadina fulminata, eppure non mi sorprende che non sia mai stata sostituita. E così procediamo lentamente su un’autostrada notturna quasi deserta. Da fuori mi raggiunge l’odore della campagna cipriota. La luce arancione dei lampioni, le palme oltre il guardrail e i cespugli di oleandro come spartitraffico fanno da sfondo. Sì, sono proprio a Cipro, e tutto sembra uguale ad allora.

Entro in camera. Non faccio in tempo a trovare l’interruttore che mi invade un profumo che conosco. Accade in un attimo. Il pesante portachiavi mi scivola dalle mani, un flutto d’angoscia mi scuote da dentro. È Yasin, ne sono sicura. Mi guardo intorno: nella stanza non c’è nessuno. Lo stesso profumo. Ho paura. Non so come sia possibile ricordarlo così bene, all’improvviso, a distanza di anni, e sentirlo così forte proprio questa notte. Raccolgo la chiave sul pavimento. Faccio qualche passo e mi sfilo le scarpe, tolgo gli orecchini e li poggio sul comodino. Il profumo di Yasin è nell’aria, come uno spettro, ma meno impalpabile. Sono stremata. Scosto il lenzuolo e mi siedo. Il gesto mi riporta a quella prima nostra notte, tutti e due stretti in un abbraccio, nel mio alloggio universitario. Gli avevo spiegato con determinazione che lasciargli accarezzare i miei capelli, per me, significava molto più che farci l’amore. Fu difficilissimo tenerlo a bada – proprio lui che era così impetuoso e irruento. Alla fine si rassegnò e, all’improvviso, la sua energia si tramutò in dolcezza, come una tempesta che si dissolve di colpo in bonaccia. Al mio risveglio era ancorà lì, ad accarezzarmi i capelli sparsi sul cuscino. Mi disse di non aver chiuso occhio tutta la notte, e poi mi baciò.

È giorno. Le tende non trattengono la luce già alle sei del mattino. Sono crollata dimenticandomi di accendere il climatizzatore e mi sono svegliata per il caldo. Sono sudata, ho bisogno di una doccia. Mentre lascio scorrere sul mio corpo l’acqua, continuo a sovrapporre involontariamente immagini del presente a quelle del passato. Cosa mi sta capitando? Mi sembra che Yasin sia fuori da quella porta, pronto a porgermi frettolosamente l’asciugamano per poi tornare ai suoi libri di patologia generale. Quando sono andata via, gli mancava ancora un anno alla laurea. Diceva spesso che poi avrebbe voluto specializzarsi in pediatria…

Guardo il bikini pronto sul letto ma ho un pensiero che non riesco a mandar via. Giro nervosamente il braccialetto – lo faccio sempre quando non so decidermi, specialmente la mattina, mentre misuro il mio umore di fronte allo specchio e cerco di abbinarlo ai vestiti per la giornata. Continuo a ruotare il braccialetto; poi mi fermo a guardarlo. Ricordo bene quando me lo ha regalato. È stato proprio in quel momento che ha saputo vincere le mie paure. Mentre lo sfioro con la mia mano mi sembra di vedere la sua che, con il pretesto di chiuderlo, mi scivola addosso ben oltre quanto avessi mai consentito.

Alla fine lascio perdere il costume. Infilo una gonna cortissima, una camicetta azzurra e un paio di sandali. Ho deciso di assecondare il mio pensiero, che si è velocemente trasformato in curiosità assordante: voglio fare una passeggiata fino all’ospedale. So che sarà tempo perso, ma il rischio di incontrarlo, per quanto minimo, mi dà alla testa come un paio di Martini a stomaco vuoto.

Il sole non dà scampo. Tutti i pazienti sono rintanati dentro e io siedo sull’unica panchina all’ombra. A una ventina di metri c’è il pronto soccorso. Una vecchia ambulanza parcheggiata là accanto sembra sonnecchiare sotto la canicola. A un certo punto mi passa davanti un prete seguito da tre bambine. Che strano, ha un’aria familiare, ma mi distraggo subito pensando a quanto caldo stia sopportando sotto quel talare scuro. Le bambine lo seguono come tre pulcini. Si avviano tutti verso il pronto soccorso. Non sembra un’emergenza, però: aspettano pazientemente sotto una tettoia di plastica, che deve essere troppo infuocata per offrire un vero riparo. Dopo qualche minuto vedo aprirsi una porta e venir fuori un uomo in camice sulla quarantina, capelli neri e baffi. Certe sembianze restano scolpite nella mente. Ho la gola secca e l’arsura in bocca, ma con un solo accenno della labbra riesco a dirlo sottovoce: sei tu, Yasin!

Le bambine lo salutano urlando papà papà papà. Yasin le bacia distrattamente, prende dalla tasca qualche banconota e la porge al prete. Poi indica l’orologio al polso, solleva le spalle e torna dentro. Quando il prete e le bambine che sembrano pulcini mi passano davanti, facendo la strada inversa dell’andata, provo ad ascoltare meglio che posso. Lo chiamano amca, che vuol dire zio. Il prete è il fratello di Yasin. I pulcini sono le figlie di Yasin. Dove sarà la madre? Starà certamente lavorando, mentre la scuola delle bambine è chiusa per la vacanza estiva e lo zio è probabile che stia facendo da babysitter. Poi mi chiedo: io, che ci faccio io qui?

Yasin, è stato bello rivederti. Ti auguro tutto il bene con la tua famiglia. Sono felice per te. Mentre penso queste parole di benevolenza, mi sfilo il braccialetto con le pietruzze blu, lo adagio sulla panchina e lo abbandono là. Poi mi incammino svelta verso l’albergo. Sudo. Alcune gocce scendono lungo la mia fronte e solcano l’incavatura tra il naso e gli occhi. Sembrano lacrime, ma non so bene se siano di felicità o di tristezza.

Giuseppe Raudino

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Grado Zero è una rivista culturale online, nata dall’incontro di menti giovani. Si occupa di cultura e contemporaneità, con particolare attenzione al mondo della letteratura e del cinema.

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