Salicelle Rap e la resilienza delle periferie. Intervista a Carmen Tè

Salicelle è un quartiere posto all’estrema periferia di un’estrema periferia. Più precisamente ad Afragola, in provincia di Napoli. Un deserto di cemento nato in seguito al terremoto dell’Irpinia e che degrado e abbandono hanno reso presto un fortino della camorra. Qui la regista Carmen Tè ha voluto girare il suo ultimo documentario, Salicelle Rap, vincitore al Festival Internazionale del Documentario di Monaco di Baviera del premio FFF Documentary Talent Award 2017. Il quarto lavoro della regista napoletana trapiantata in Germania mette in luce la realtà di uno dei rioni più abbandonati della provincia campana, dove l’opera trentennale del parroco Don Ciro Nazzaro ha permesso ai giovani del quartiere di credere alla possibilità di realizzare i propri sogni. E c’è chi ce l’ha fatta, come i due rapper Luca Blindo e Tony Phone, che oltre a proseguire la loro carriera artistica, hanno fondato una scuola per insegnare ai ragazzi del quartiere come comporre brani rap, strappandoli così dalla strada e da un futuro apparentemente oscuro.

In occasione della proiezione del docufilm al Festival MANN 2018, abbiamo incontrato Carmen Tè per scambiare quattro chiacchiere sulla sua ultima fatica.

Com’è nata l’idea di descrivere la realtà difficile di un quartiere sconosciuto alla maggioranza degli stessi abitanti di Napoli?

«In quanto autrice e produttrice indipendente di documentari per la televisione tedesca, e in particolar modo per le redazioni che si occupano di religione e società, sono partita dalla volontà di raccontare come alcuni sacerdoti del Sud Italia impegnino la loro vita a favore di comunità che altrimenti vivrebbero abbandonate a loro stesse, poiché per nulla supportate dalle istituzioni. Figure che in Germania è più difficile incontrare, poiché da questo punto di vista la società tedesca è sorretta da istituzioni statali che funzionano molto bene, per cui la Chiesa ha un minore impatto sociale sulle comunità rispetto a quello che ha invece in Italia, e in particolar modo nel Mezzogiorno.»

Mi tornano in mente le parole di Alex Zanotelli, parroco del Rione Sanità, che definì l’esercito coinvolto nel progetto Strade Sicure «un mero elemento di arredo urbanistico», proprio a voler sottolineare l’inadeguatezza dell’intervento delle istituzioni nei quartieri più a rischio della città. E a Salicelle lo Stato sembra latitare, costringendo appunto Don Ciro e la comunità religiosa a farne le veci.

«È una situazione davvero estrema! Forse lo Stato è presente solo per quanto riguarda la scuola, nella funzione – parallela rispetto all’operato di Don Ciro – delle presidi e delle insegnanti che operano in realtà così difficili sempre con grande impegno sociale, svolgendo molto spesso un ruolo che va al di là del mero insegnamento e che prevede un coinvolgimento molto più ampio. Ruolo in parte svolto anche dagli operatori che lavorano nelle carceri, i quali sono ben consapevoli della situazione che si vive in determinate zone come quella delle Salicelle e sono a conoscenza di tutta la catena che non funzione e che crea difficoltà nel reinserimento sociale degli ex detenuti. Perché trovare lavoro, per esempio per un ragazzo come Giovanni che ha già trascorso quasi vent’anni, metà della sua vita, in carcere senza aver prima ricevuto il supporto di psicologi, assistenti sociali, o chi altri dovrebbero essere preposti a guidarlo nella vita quotidiana, è molto difficile.»

Nel tuo documentario non c’è alcuna traccia di pallottole e sangue. La camorra è evocata solo nei racconti di alcuni dei cittadini del rione. La tua scelta di porre ai margini della narrazione la criminalità organizzata è decisamente controcorrente…

«A questo proposito potrei  darti una risposta molto netta: ho proprio deciso di non voler dare spazio alla negatività nel mio film, non ho voluto dedicare nulla del mio lavoro al mondo della criminalità.»

A questo punto mi sembra abbastanza chiara la tua posizione rispetto a fiction come Gomorra

«Da questo punto di vista io non critico Gomorra, semplicemente non lo guardo. Più di dieci anni fa ho letto il libro di Saviano, un libro interessante e inquietante allo stesso tempo, che ha certamente smosso le coscienze, ma ha aiutato fino a un certo punto a confrontarsi maggiormente sull’argomento. C’è però da dire una cosa: esistono ragazzi di questi quartieri che vedono in Gomorra la denuncia di un mondo che va fatto conoscere a tutti. E in questo riconosco una sua funzione positiva.»

Salicelle Rap è un film che ha avuto una lunga gestazione. Quali difficoltà hai incontrato durante la lavorazione?

«Le difficoltà iniziali sono state soprattutto economiche perché, partendo dal fatto che non ho mai cercato finanziamenti in Italia, trovare fondi in Germania per sviluppare un tema per certi aspetti così localmente definito e apparentemente senza alcuna valenza internazionale, non è stato semplice. Per di più Salicelle Rap è un documentario “d’osservazione”, per cui ho avuto bisogno di dilatare i tempi di produzione per poter osservare l’evoluzione reale nella vita quotidiana delle persone coinvolte, stando spesso sul territorio senza macchina da presa, rimanendo lì anche senza fare nulla per imparare a riconoscere le dinamiche della comunità.»

Il presidente della Film Commission della Regione Campania, Valerio Caprara, nel suo intervento introduttivo ha parlato di “dignità del documentario come genere legato fortemente alle origini del cinema”. Credi che questa modalità narrativa debba oggi reclamare più spazio nel panorama cinematografico?

«Nel panorama cinematografico in questo momento il documentario gode di grande fortuna, e anche di una discreta disponibilità di fondi. Ciò che è carente, paradossalmente, è la distribuzione, sia nelle sale cinematografiche che nelle televisioni italiane. Le risposte in termini di partecipazione alle proiezioni del mio documentario a Monaco quanto a Napoli hanno dimostrato però che questo tipo di produzioni suscita una grande curiosità nel pubblico – un pubblico anche di qualità, proveniente da mondi professionali eterogenei – e sono convinta che una distribuzione più capillare possa solo giovare al settore. E poi credo che un documentario come Salicelle Rap possa veicolare soprattutto presso il pubblico più giovane un messaggio di speranza, che insegni come attraverso l’impegno e lo sforzo di realizzare qualcosa di positivo da parte di un singolo si possa ottenere un beneficio per la collettività.»

Quali sono i tuoi prossimi progetti?

«Attualmente sto focalizzando la mia attenzione innanzitutto sulla vita nell’area del Mediterraneo – un aspetto che mi interessa particolarmente, perché vivendo sospesa tra due culture, quella tedesca e quella italiana, sono costantemente portata a fare un confronto, in un contesto di dialogo interculturale, tra lo stile di vita nell’Europa Centrale e quello nell’Europa del Sud. Poi un altro tema che sto seguendo molto e al quale sto lavorando è quello relativo ai padri separati che perdono il diritto di vedere i propri figli.»

 

Valerio Ferrara

Valerio Ferrara

Valerio Ferrara nasce a Napoli nel 1990. Dopo aver conseguito il diploma classico, frequenta la facoltà di Economia, maturando in seguito la decisione di abbandonare questo percorso e intraprendere gli studi umanistici presso il dipartimento di Scienze Sociali dell’Università degli studi di Napoli Federico II, dove consegue la laurea in Sociologia, presentando una tesi in Sociologia dei processi culturali e comunicativi. La sua più grande passione è il cinema, con una spiccata predilezione per quello d’autore. Amante della musica sin dall’infanzia, è stato membro dei Black on Maroon, una band alternative rock partenopea. Dal 2016 è redattore della rivista Grado Zero.

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