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4 3 2 1 destini di Archie Ferguson

Il 3 marzo 1947 nacque Archie Ferguson, figlio di Stanley Ferguson e Rose Adler, “e per diversi secondi, una volta uscito dal corpo di sua madre, fu l’essere umano più giovane sulla faccia della terra”. Siamo a pagina 34, e nelle 905 pagine successive, Archie crescerà, si innamorerà, a volte morirà, altre no. E quando non muore, dopo 939 pagine insieme, l’unica domanda che il lettore riesce a porsi è: – Dove andrà Archie, ora?

4 3 2 1 è l’opera monumentale di Paul Auster, il mastodontico capolavoro di una vita, anzi, di quattro vite. Le quattro possibili vite di Archie Ferguson orfano di padre o no, che studierà alla Columbia o forse a Princeton, che fa il poeta o il reporter, che si innamora di donne, o di uomini, o di uomini e donne senza distinzione. Con questo romanzo edito in Italia da Einaudi (2017), Auster decide di affrontare il tema delle sliding doors, dei destini possibili, ma che non si sono mai realizzati. Lo scrittore americano di Newark decide di raccontarli tutti, questi destini, di permettere al suo eroe di vivere quelle vite parallele che il mondo reale ci impedisce di scoprire: Auster mette nelle mani di Archie la possibilità di vivere quattro volte nella stessa vita.

Questa è la vera magia della letteratura: giocare con la linea del tempo e dello spazio, essere in tanti luoghi e vivere tante vite. Il romanzo di Auster è una meravigliosa metafora dello spazio narrativo, del mondo sconfinato dell’inventio, ma anche – e con straordinaria delicatezza – del rapporto tra il libro e il lettore. Tutta l’esperienza di lettura è un continuo immedesimarsi in vite diverse, vite che diventano la nostra, al punto che quando si arriva alla parola fine ci sentiamo catapultati in una realtà svuotata, con la vivida sensazione di aver perso qualcosa.

C’è di più, Archie Ferguson nasce a Newark; vive – in modi, con sensazioni e in luoghi diversi – il sessantotto rivoluzionario; si esprime – con mezzi e tecniche diverse in ogni storia – attraverso la scrittura; in qualche modo finirà sempre per vivere un periodo della sua vita a Parigi; ama la letteratura, la poesia e lo sport, in particolare il baseball. Non servono altri elementi per identificare l’autore con il suo eroe. Paul Auster ha voluto parlare di sé attraverso Archie? È interessante l’idea che l’autore dal linguaggio astratto e criptico di Trilogia di New York (leggi l’articolo qui), in questo romanzo si esprima con una scrittura così lucida, lineare e appassionata e ci racconti una storia – una somma di storie – così concreta, al punto da somigliare alla sua stessa vita.

Più che per soddisfare il bisogno di raccontarsi, è plausibile che Auster abbia avvertito l’esigenza di raccontare la Storia, con la s maiuscola. In particolare, la storia degli Stati Uniti tra gli anni ’60 e ’80, così densa di movimenti politici e ideologici. Auster racconta il fermento culturale, tecnologico e sociale di New York (la stessa città incantata della Trilogia), ma sceglie di declinare questo racconto all’interno della vita di un Ferguson-Auster, a metà tra la finzione letteraria e il racconto biografico. Attraverso Archie, le sue passioni e i suoi umori, il lettore rivive l’assassinio di Kennedy, l’ambiguità del governo Nixon, l’entusiasmo ribelle del ’68 nei disordini alla Columbia University, la guerra in Vietnam, i Pentagon Papers e la spregiudicata ascesa al potere di Nelson Rockefeller, un nome che nella storia di Archie ha radici ancora più profonde.

La vicenda di 4 3 2 1 prende, infatti, le mosse nel 1900, anno dello sbarco in America di Isaac Reznikoff: “Mentre aspettava di essere interrogato da un funzionario dell’immigrazione a Ellis Island, il nonno di Ferguson attaccò discorso con un altro ebreo russo. Quello gli disse: Scordati in nome Reznikoff. Qui non te ne fai niente. Per la tua nuova vita in America ti serve un nome americano […] Di’ che ti chiami Rockfeller, fece quello, così vai sul sicuro.” Dopo un’ora di fila, l’ebreo Isaac aveva già dimenticato il nome americano che gli era stato suggerito. Così, quando il funzionario di Ellis Island gli chiese: “Nome?” se ne uscì con una frase in yiddish “Ikh hob fargessen (Non me lo ricordo più)! E fu così che Isaac Reznikoff cominciò la sua nuova vita in America come Ichabod Ferguson”.

Da Ichabod Ferguson nacque Stanley, da Stanley nacque Archie e il resto della storia segue strade diverse che il lettore è costretto a inseguire nelle vie tortuose della scrittura di Auster, poco avvezzo ai punti e amante dei periodi proustiani, lunghi intere pagine. Ecco il tipico caso in cui la narrazione sembra non prendere mai “fiato” e un unico periodo diventa un microracconto nel racconto:

“I libri sulla lista di Gil ma anche i libri sul cinema, storia e antologie in inglese e francese, saggi e scritti polemici di André Bazin, Lotte Eisner e i registi della Nouvelle Vague prima che iniziassero a girare i loro film, i primi articoli di Godard, Truffaut e Chabrol, una rilettura dei due libri di Ejzenštejn, le riflessioni di Parker Tyler, Manny Farber e James Agee, studi e meditazioni di vecchi venerabili come Siegfried Kracauer, Rudolf Arnheim e Béla Balazàzs, tutti i numeri dei «Cahiers du Cinéma» da cima a fondo, seduto nella biblioteca del British Council a leggere «Sight & Sound», ad aspettare che gli arrivassero le sue copie di «Film Culture» e «Film Comment» e poi, dopo aver letto dalle otto e mezza a mezzogiorno, le gite pomeridiane alla Cinémathèque dall’altra parte del fiume, solo un franco per il biglietto con la vecchia tessera da studente della Riverside Academy, che il bigliettaio non controllava mai neanche di sfuggita per vedere se era ancora valida, il primo, il più grande e il migliore archivio cinematografico del mondo, fondato dal grasso, ossessivo, donchisciotesco Henri Langlois, l’uomo di cinema per eccellenza, e che strano vedere film inglesi rari con i sottotitoli in svedese o i film muti senza accompagnamento musicale, ma quella era la Legge di Langlois, NIENTE MUSICA, e anche se ci mise un po’ ad abituarsi allo schermo muto e alla sala senza suoni se non i colpi di tosse e gli starnuti del pubblico e l’occasionale fruscio del proiettore, Ferguson arrivò ad apprezzare il potere di quel silenzio, perché gli succedeva spesso di udire delle cose mentre guardava le immagini, la portiera di un’auto che sbatteva o un bicchiere d’acqua che veniva posato sul tavolo o una bomba che esplodeva su un campo di battaglia, il silenzio dei film muti produceva un vortice di allucinazioni sonore, che la dicevano lunga sulla percezione umana, immaginò lui, e sul modo in cui le persone vivevano le cose quando erano coinvolte emotivamente nell’esperienza, e quando non andava alla Cinémathèque, andava alla Pagode, Le Champollion e in uno dei cinema su rue Monsieur-le-Prince o su boulevard Saint-Michel o alle spalle del boulevard, vicino a rue des Écoles, e poi […]”

È un romanzo dotato di un’indiscutibile ricchezza di storie, parole, dettagli. Un libro lungo, lunghissimo ma bello, veloce, accattivante, animato da una passione e un entusiasmo rari. 4 3 2 1, quattro destini, la Storia americana che si agita sullo sfondo e la cura magistrale con cui Auster riesce a coniugare tutti questi colpi violenti, queste vite che si incontrano o scontrano, che divergono e poi si incontrano alla fine in una riduzione a uno. Il caos e poi il silenzio. Le vite e poi un’unica vita, quella del vero Archie Ferguson, di Paul Auster, del lettore rimasto solo, svuotato dopo quasi mille pagine di totale estraniazione dalla propria, reale, unica vita.

Anna Fusari

 

Anna Fusari

Anna Fusari frequenta un Master in Editoria, Giornalismo e Management Culturale a Roma. Inizia gli studi universitari in Lettere Moderne a Napoli e continua con un Double Degree in Filologia Moderna tra Padova e Grenoble. Dopo una lunga tappa francese a Montpellier, torna in Italia per realizzare il sogno di trasformare in lavoro la sua più grande passione: i libri.

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