Un getto freddo in pieno viso: Il blues del ragazzo bianco.

Mi chiamo Kaufman, Gunnar Kaufman. Sono l’Oreste nero della maledetta casa di Atreo. Predestinato da un corredo di cromosomi fuori squadra a trascinarmi sulle orme di una lunga fila di negri codardi, copie dello zio Tom e fedeli gregari osannanti.

Scrivere un romanzo in prima persona è una decisione molto rischiosa. L’autore sceglie di svestire il suo ruolo anonimo e di parlare per se stesso. Ogni pagina avrà così un taglio unico e un filo diretto con il lettore. Tuttavia, se non gestita bene, questa preferenza potrebbe rivelarsi un’arma a doppio taglio. Tale ipotesi non riguarda la penna di Paul Beatty. La sua incisività colpisce immediatamente, lo stile fresco e articolato riesce a mantenere sempre alta la tensione. Esattamente quanto ci si aspetta da una narrazione in prima persona. Lo scrittore realizza periodi lunghi, ricchi di virgole. Inciso dopo inciso, la sua penna si tinge di una franchezza molto dura, filtrata attraverso una cultura ampia, percepibile dal primo rigo.

Tra frammenti di storia americana, antenati macchiettistici e ricordi d’infanzia prendono corpo le prime pagine del romanzo. L’inevitabile passato schiavista dei suoi avi – a tratti volutamente ridicolo – vibra nella memoria della voce narrante in tutta la sua ottusità. Rocambolesche avventure con fuga e danze nelle piantagioni di tabacco ai limiti dell’inverosimile. Il tutto accompagnato da un costante contrasto tra frasi di infimo ordine come «i negretti non crescono sugli alberi» e sublimazioni poetiche in piena prosa. Le radici schiaviste segnano di vergogna e disprezzo il piccolo Kaufman, il quale rievoca il suo albero genealogico con manifesta riluttanza.

Il discorso più che scorrere sembra galoppare incessantemente: un perpetuo fluire di battute, nomi e aneddoti. Le frasi hanno quasi l’aspetto di un flusso di coscienza, in cui paragoni, metafore e sinestesie giocano a rincorrersi. Ne deriva una scrittura tanto spedita quanto ampia, la cui panoramica gode di una messa a fuoco ad ampio raggio.

La voglia del protagonista di crescere e di fuggire dal contesto in cui è nato, tanto dai parenti quanto dall’ambiente in cui ha cominciato a pensare, è l’impalcatura narrativa su cui prende corpo l’intera vicenda. Egli, infatti, si augura manifestamente di non trascorrere una vita come quella dei suoi genitori. La figura genitoriale con maggior spessore è quella della madre: un personaggio piatto e gretto, la cui volgarità è in armonia con la durezza. La ferma intenzione di crescere figli determinati, forti e consapevoli la rende verbalmente brutale e dai modi quasi grotteschi. Ogni evento è messo a nudo da Gunnar, felice di non omettere alcun dettaglio, non tanto per il buon nome della verità, quanto per un puro piacere personale.

Tuttavia, quando la voce narrante accenna alla fortunata inconsapevolezza della sua infanzia, il romanzo assume un ritmo più calmo e rilassato. Ripensa alla placidità delle sue giornate, attraverso periodi  che hanno il giusto effetto empatico. Prima che gli schieramenti razziali sospinti dalla paura e dalla rabbia prendessero il sopravvento. I cambi di scena sono sempre bruschi, conditi da un linguaggio forte che enfatizza l’impatto con la realtà spiacevole, ad esempio, dell’ambiente domestico.

Se la fuga dalla propria condizione familiare funge da impalcatura narrativa, il colore della pelle può essere considerato il semaforo che dirige il traffico della trama. La sua presenza costante tra i banchi di scuola filtra spesso e volentieri dalle parole scritte del nostro beniamino. La capacità fanciullesca di riadattare goliardicamente ogni assunto educativo –al di sopra di tuttil’irrilevanza della differenza etnica – fa da controcanto alla gravità della questione.

Il nostro «negro figo che fa ridere» cresce, passando dal Sole frizzante dall’atteggiamento politically correct di Santa Monica all’asfalto umido e buio del quartiere di Hillside, West Los Angeles.

La fitta rete di contraddizioni e connotazioni negative dei genitori del personaggio principale si esplicitano al meglio attraverso questo cambio repentino. Il padre di Gunnar e delle sue sorelle è quasi una figura immobile nell’immaginario del protagonista. Al contrario della madre, la cui presenza è tanto costante quanto insensibile, incapace di comprendere i bisogni dei suoi figli. Kaufman si ritrova solo in mondo ostico e volgare, dove tutti insultano chiunque. La violenza e la solitudine sono scaltramente sublimate dall’ironia della voce narrante, suo inequivocabile biglietto da vista. Il suo spirito di sopravvivenza e i contesti ai limiti del parossismo rendono le pagine spassose e ricche di curiosità. Il suo sguardo attento descrive scenari sciatti, con adulti flaccidi e ragazzi rumorosi. Le quotidianità si evolvono e con loro la voglia di scoprirne il seguito. Sorprendentemente la vita del protagonista cambia, il mondo oscuro e rabbioso che lo circonda pare smetta di inghiottirlo, concedendogli la possibilità di integrarsi. Circostanze del tutto casuali lo rendono il pupillo del piramidale microcosmo di Hillside. In pochi e rapidi atti l’adolescente riesce a diventare qualcuno e a farsi accettare. Una schiacciata fortunata su un campo da basket, un nuovo taglio di capelli e una poesia scritta su muro: ecco il paradigma del suo successo. È una nuova amicizia a fortificare la personalità coloratissima del Gunnar, il quale decide, incitato dalla positiva scia degli eventi, di diventare poeta. Egli è ormai un fiero ingranaggio della caotica durezza del quartiere, in cui, come spesso accade in contesti così ad alto rischio, il gioco si fa sempre più pericoloso.

Superata la fase prepuberale, la personalità di Gunnar si inspessisce, si solidifica, fino a esplodere. Diventa un’eccentrica mina vagante, legata al suo habitat fatto di patti di sangue e orgoglio nero che solo un vero nero può capire. Condizionato dal suo trascorso e dalle sue capacità, il protagonista rifiuta drasticamente la mentalità delle persone intorno a lui.Solo pochi eletti possono permettersi di ruotare intorno alla sua orbita senz’asse, nella sua quotidianità fortuita. Egli giudica con pietà o disgusto l’atteggiamento di colleghi e conoscenti. Rappresentano l’altro lato dell’umanità, colpevole di ignorare quella verità negra che solo lui e i suoi compari hanno assaporato con la faccia sull’asfalto.

Da circa metà libro in poi subentra nella narrazione un elemento significativo, il cui ruolo appare implacabile: la casualità. Nonostante l’intelligenza, il ragazzo protagonista lascia manovrare i fili della sua vita agli altri, opponendo una resistenza passivo-aggressiva. Egli vive le assurdità che colorano queste pagine come se fossero fatalità. Gunnar non appare protagonista, ma spettatore di se stesso, intento a guardare i momenti chiave della sua vita nascosto nella sua mente.

Le poesie di Kaufan si guadagnano un consenso di gran lunga superiore alle sue aspettative. I complimenti dei suoi ammiratori lo soffocano e l’irritazione è tale da farlo scappare, in preda ai più ridicoli atteggiamenti. Lui percepisce di non essere visto per chi è veramente, ma come il fenomeno letterario del momento, nato come un fiore di loto dal fango di un quartiere malfamato. Le sue parole sono l’ossessione del suo pubblico misto, un’ambrosia impossibile da dimenticare. Nel turbine di questa venerazione, comparsa da un giorno all’altro, le parole del nostro ragazzo volano leggere tra la folla adorante.

Discorsi catartici e fini a stessi dalle conseguenze estreme, un estremo scioccante per qualunque lettore, metabolizzato come un sorso di birra da Gunnar. La sua sensibilità è completamente alterata dal suo background. Il suo incedere nella vita a passo annoiato prosegue scevro di deviazioni significative. Nessuna certezza e nessun valore se non quelli del ghetto, colpevoli di aver macchiato una mente brillante. Una mente brillante colpevole di essersi fatta marchiare da strati di cemento e commemorazioni funebri a base di alcool.

È un romanzo forte e desolante, Il blues del ragazzo bianco. Un romanzo forte con un protagonista vivido, difficile da dimenticare.

Marcella Maria Caputo

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