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Messico e western: il cuore di tenebra dell’America

Vera Cruz di Robert Aldrich uscì nelle sale nel 1954, Il mucchio selvaggio di Sam Peckimpah risale invece al ’69. Quindici anni separano il primo dal secondo. Di fatto,  tanto hanno impiegato Aldrich e Peckimpah per fare il funerale al mito più antropologicamente americano, e per farlo si sono dovuti spostare a sud, in Messico.

In Vera Cruz, la guerra di indipendenza è finita e al colonnello sudista Benjamin Trane ha lasciato soltanto la camicia; insieme ad altri parassiti della violenza, si mette in marcia per il Messico: c’è un conflitto in corso, e dove c’è una guerra uomini con pochi scrupoli possono fare molti soldi.

In Il mucchio selvaggio Pike Bishop e Deke Thornton sono compagni di scorribande, e proprio mentre se la stanno spassando con due prostitute, ecco che i cacciatori di taglie bussano alla porta: il primo riesce a saltare dalla finestra, mentre l’amico viene catturato. Ora Deke è stretto tra ciò che gli piace (i vecchi tempi col suo gruppo) e ciò che gli serve (non tornare più in carcere), sospeso tra il risentimento di essere stato abbandonato dall’amico e la nostalgia della vita di ieri inesorabilmente perduta.

Siamo più o meno negli stessi anni in cui Ethan Edwards, in Sentieri selvaggi (John Ford, 1956), torna alla fattoria del fratello dopo aver combattuto, ancora in Messico, e aver guadagnato quella medaglia (l’Ordine di Santa Guadalupe) che metterà al collo di sua nipote Debbie. È, questo, il terzo film attraverso cui Aldrich e Peckimpah si congiungono con Ford, formando un triangolo dentro il quale frana la fiducia nella Storia come evoluzione delle sorti progressive dell’Uomo.

Cos’è questo vuoto intorno al quale si intrecciano febbrili rincorse tra il Texas e il cielito lindo del Messico? L’assenza è la coscienza di una “mancanza”, di un buco incolmabile ma che pure per questi uomini deve trovare riempimento, ora col denaro, ora col potere, ora con le donne oppure con l’alcool. E se nel Mucchio il riempimento è orientato al significante primo della struttura sociale, cioè il denaro, Mapache (un criminale messicano autoproclamatosi generale di un esercito di sbandati) è portatore di una coscienza che si fonde con la natura, orgiastica ed alcolica, purissimo godimento mortale, prefigurando il ritorno ad uno stadio animale, selvaggio, precivile.

I gringos sono depositari del senso, ma sono allo stesso tempo attirati, come falene dalla luce, dall’abisso oscuro dell’essere. Nel film di Aldrich l’eroe può ancora chiamarsi tale, ma solo per una trattenuta misura del godimento: Benjamin Trane patteggia un compenso di centocinquantamila dollari per i suoi servigi, oltre il quale il rischio di perdersi è pressoché certo. Cosa faranno i rivoltosi juaristi con tre milioni e mezzo di dollari? Esattamente ciò che farà Mapache con il carico d’armi rubato per lui dal Mucchio all’esercito: impazzire. Il Messico è orgia di luce, clima temperato, dolcezza di vita, ma anche il conradiano “cuore di tenebra” dell’uomo.

Allo stesso modo Ethan Edwards sente il rischio di alienarsi da sé stesso. In Sentieri selvaggi è in Nuovo Messico alla ricerca di sua nipote rapita dai Comanche, ma teme di trovarla nella baracca in cui l’esercito ha riunito le superstiti donne bianche facenti parte della tribù assalita. Prima di uscire si arresta e, coperto dalla falda del suo monumentale cappello, getta letteralmente lo sguardo su di loro, sull’orrore dell’alienazione da sé. Quelle donne non sono più bianche, ma neanche indiane: non sono più niente. «Considerale morte» dice Ethan a Martin.

In fondo lo sguardo sulle donne “non più bianche” è lo sguardo su di sé, su cosa sta diventando nel forzare lo sguardo dell’odio fin dentro l’oscura forza selvaggia, il cui culmine sarà lo scotennamento del capo Scar in un eccitato e brutale rituale di vendetta. Solo il Reverendo Clayton cercherà di trattenerlo al di qua dell’abisso, rappresentando per lui il limite insopportabile della ferita che fa uomo non solo Ethan, ma tutti i coloni nelle terre selvagge, tutti immersi nella stessa natura meravigliosa e feroce, indifferente alle sofferenze degli uomini, a cui è possibile contrapporre solo le parole dell’Antico Testamento e la fede in un Dio crocefisso.

Se c’è un momento di celluloide preciso in cui muore il western, questo è il momento di uno sguardo. Di quello di Ethan sulle donne “non più bianche”, abbiamo già detto. Il secondo è opera di Peckimpah. La mattina presto ad Agua Verde, appena prima del massacro, Pike si sta rivestendo e cerca di rifuggire lo sguardo della donna con cui ha diviso il letto nella notte appena trascorsa. È una bellissima meticcia messicana, con gli zigomi tondi, le guance di caffellatte, due occhi da adolescente. La ragazzina ha già un figlio, steso sopra un pagliericcio sudicio. Il lungo, perplesso sguardo di Pike vede nella donna l’altra ipotesi di sé, quella che non è mai nata (una famiglia, forse dei figli) e finalmente si rassegna ad accettare il limite che un uomo, per dirsi tale, deve portare sulle sue carni.

«Tutti sogniamo di tornare bambini, anche i peggiori di noi. Forse i peggiori lo sognano più di tutti» esclama Don Jose a Pike in una pausa dall’ansia di fuga in Messico. Il colonnello Trane, Ethan, Dutch, Pike, Deke: tutti sognano di tornare bambini, perchè in un modo o nell’altro sono i peggiori tra noi. Peckimpah però non ci lascia al nostro consolatorio posto di spettatori, ci tira dentro il film, ci dice che siamo come loro. È la scena della bottiglia dopo aver messo al sicuro il carico d’armi: la tequila per un tacito accordo passa di bocca in bocca, per lasciare Lyle a secco e far esplodere il Mucchio in una cameratesca risata liberatoria.

Mi pare ancora di sentire Pike che dopo una lunga pausa dice: «Andiamo» e Dutch che ribatte: «Lasciami il tempo». Si può avere tempo mentre i proiettili sibilano ad un palmo dalle orecchie? Quest’ansia di movimento per Pike è un modo di tenere la morte a distanza, sempre, tranne che per quell’ultimo “andiamo”, quello che li getterà tra le sue fredde braccia con deliberata intenzione.

Mi sono sempre chiesto: perché quella mattina Pike dice solo «andiamo»? Sarebbe stato il momento ideale per un bel discorso, ma Peckimpah sa bene che un “fantasma di morte” non può essere messo in parole, è possibile solo andargli incontro. Se la vita è una trappola, se non offre altro che fughe alcoliche da una mancanza sentita come intollerabile, non resta che abbracciare la morte come un’innamorata, riconoscendo in lei il bagliore della verità.

Vincenzo Carboni

Vincenzo Carboni

Vincenzo Carboni nasce a Roma nel 1963. Dopo avere completato studi universitari in Servizio Sociale, approfondisce temi di psicanalisi, teatro e linguaggio video, campi da cui attinge per attuare progetti di educazione alla salute. Scrive di teatro, cinema e critica letteraria, proseguendo allo stesso tempo studi disordinati. Gli esami – si sa - non finiscono mai...

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