L’urlo e il Furore: l’eco di Macbeth in Faulkner

L’urlo e il furore è un romanzo dello scrittore statunitense William Faulkner (1897 – 1962), pubblicato nel 1929 e incentrato sulla decadente vicenda di una ricca famiglia del Sud, i Compton.
L’opera si divide in 4 sezioni, ognuna delle quali ricopre l’arco temporale di una giornata ed è narrata attraverso il punto di vista di un personaggio.
A prendere voce e riproporre la vicenda sono rispettivamente i tre figli Compton: Benjamin, trentatreenne handicappato e ritenuto la macchia della famiglia, nonché preannuncio delle disgrazie familiari, Quentin, studente universitario lacerato da dissidi interiori dovuti a un incesto commesso con la sorella Caddy, e Jason, cinico e determinato nel voler cancellare a tutti i costi gli scandali che minano l’ormai già deturpato nome Compton.
L’ultima sezione è affidata al punto di vista della serva nera Dilsey, figura lucida e accondiscendente, che con il suo sguardo equilibrato e materno tiene le redini di una situazione fragile.

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Ampiamente analizzate da Faulkner nei suoi romanzi – si pensi a titolo d’esempio a “Mentre Morivo”, “Sanctuary” e “Light in August” – la realtà dell’America del Sud e la nobiltà di impianto morale che la caratterizza, la tematica della schiavitù e il rapporto bianchi e neri vengono affrontati ne L’urlo e il furore alla luce di una struttura originale e volta a far rivivere il dramma familiare, o meglio i singoli drammi personali che si riallacciano all’unisono in un unico quadro di sfacelo.

Le tematiche universali in quest’opera emergono come di profilo, quasi fossero allusioni marginali, squarci periferici all’interno di più realtà introspettive, troppo infossate in se stesse per protendersi al di fuori dell’universo del singolo.
L’impossibilità di prorompere nel mondo esterno, impossibilità evidente soprattutto per i membri della famiglia, viene resa da Faulkner sul piano narrativo attraverso il ricorso alla tecnica dello stream of consciousness.
Debitore nei confronti dell’Ulisse di Joyce, soprattutto per quanto riguarda la sezione di Molly, Faulkner presenta i pensieri e gli stati d’animo dei tre figli, filtrando le vicende alla luce delle diverse personalità.

La sezione dedicata a Benjamin, la prima, è la più ardua e ostica: l’autore sperimenta per la prima volta il flusso di coscienza di un inabile mentale.
Il discorso si sviluppa sotto forma di percezioni, la realtà viene sviscerata nelle sue componenti uditive, olfattive e visive, smolecolarizzando le connessioni logiche e i pensieri consequenziali e riproponendo le vicende sotto forma di ricordi indistinti o di sensazioni, attraverso cui passa anche il riconoscimento delle persone,

Caddy aveva l’odore degli alberi.

Benjamin alterna ricordi ad azioni, sfalsa i piani temporali in un continuo ping-pong tra passato e presente, rendendo la lettura ardua ma mai spiacevole.

Continuavano ad avvicinarsi. Io aprii il cancello e loro si fermarono, voltandosi indietro. Io cercavo di dire qualcosa, e la presi per un braccio, cercando di dire qualcosa, e lei cacciò un urlo e io cercavo, cercavo di dire qualcosa, e le forme lucenti cominciarono a fermarsi e io cercai di uscire. Cercavo di strapparmela dal viso, ma le forme lucenti avevano ripreso a muoversi. Andavano su per il colle fin dove cominciava la discesa e io cercai di piangere. Ma quando mi riempii i polmoni non fui più capace di vuotarli per piangere, e cercavo di non cader giù dalla collina e caddi giù dalla collina tra le forme lucenti e vorticose.

In questa prima sezione, la voce insolita e straniante inscenata da Faulkner sembra disorientare più che suggerire: solo proseguendo nel libro e leggendo le altre parti dell’opera il lettore riesce a farsi un’idea di quanto Benjamin comunichi, o cerchi di comunicare, permettendo anche di rivalutare retroattivamente gli stessi meccanismi di pensiero ed esistenza del personaggio.

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Il titolo dell’opera, che nell’originale suona “The sound and the Fury”, è una citazione di Shakespeare, autore molto caro a Faulkner: il verso è tratto dalle battute di Macbeth, dell’omonima tragedia, nel celebre monologo del V atto, scena V, proferito dall’eroe in seguito all’annuncio della morte di Lady Macbeth:

Life’s but a walking shadow, a poor player/ That struts and frets his hour upon the stage/ And then is heard no more. It is a tale/ Told by an idiot, full of sound/ and fury, Signifying nothing.

Si tratta di uno dei fulcri della tragedia, in cui l’eroe si riconosce come effettivamente solo nella sua esistenza – e nella sua allucinazione, se si ricorda la vicenda particolare di Macbeth – : siamo dinanzi alla denuncia di una vita priva di senso, denuncia condensata nella metafora teatrale di un’esistere considerato alla stregua di una messinscena, a cui fa seguito in modo irreversibile la progressiva caduta dell’eroe.
Volendo riallacciare la citazione a L’urlo e il furore, si potrebbe dire che il monologo shakespeariano si interrompere dove Faulkner inizia: “la storia raccontata da un idiota, piena di rumore e furia, che non significa nulla” potrebbe esser la descrizione del racconto di Benjamin con cui l’opera di Faulkner si apre.
Le parole di Macbeth, pronunciate nella disperazione di sapersi impossibilitato a vincere il destino, si caricano di un’irrisione del passato e dell’esistenza stessa, che, additata a finzione, si immiserisce di ogni valore, giungendo a negarsi in un signifying nothing: dove Macbeth si spegne Faulkner innesta la voce, non-voce (se si considera la difficoltà di comunicare del personaggio) di Benjamin, inscena quell’idiota che l’eroe shakespeariano aveva evocato ad aedo umano e gli assegna l’onere di presentare una vicenda di miseria, di solitudine e desolazione che interessa la famiglia di cui lui stesso viene imputato emblema di degrado.

La mancanza di significato – signifying nothing -, in Macbeth fatta risuonare con vigore al termine di un crescendo, quasi fosse una nota greve appesa al silenzio di un destino ineluttabile e lasciata vibrare fino al suo naturale estinguersi, si riverbera nel romanzo di Faulkner, soffusa e dispersa nelle plurime esistenze che compongono la famiglia Compton, ognuna delle quali è un suono nitido e pulito ma incapace di armonizzare nell’insieme.
Il dramma di Macbeth echeggia nelle voci dei personaggi di Faulkner, realtà diverse ma intrinsecamente simili per l’amaro sentore di un destino avverso, inalterabile, a cui l’individuo, per quanto si divincoli, non può che sottostare.

Se il finale shakespeariano, in cui un ordine viene ripristinato grazie all’ascesa al trono di Malcolm, resta comunque fortemente intriso dell’ombra di Macbeth, la cui morte non riesce ad occultare il sangue e il terrore ormai seminati, anche in Faulkner la chiusura sembra voler ristabilire un ordine che tuttavia non vi è mai stato, se non nel passato albeggiato da Benjamin, e che per tutto il romanzo cerca di esser ripristinato e costruito: un tentativo di portare

ogni cosa al suo posto prestabilito.

Claudia Corbetta

Claudia Corbetta nasce a Bergamo nel 1995. Frequenta il liceo scientifico su consiglio dei genitori nonostante l’animo e il cuore siano sempre votati al settore umanistico. Un infortunio arresta la sua carriera atletica da quattrocentista ma le permette di avere più tempo per leggere, scrivere e perdersi in pensieri cavillosi. La sua dichiarata passione per la letteratura la porta a iscriversi alla facoltà di Lettere Moderne di Milano. Legge romanzi e ama la poesia. Ha sempre ritenuto la scrittura una parte fondamentale della sua vita. Giustifica il suo piacere di notomizzare attraverso il linguaggio con una citazione rivisitata di Thomas Mann, per cui se l’autore dei Buddenbrook sostiene che “l’impulso a denominare” equivarrebbe a un “modo di vendicarsi della vita”, la sua giovane età la porta ingenuamente a sostenere che per lei esso sia in realtà un “modo di conoscere la vita”.

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