Midnight in Paris. Non il solito Woody Allen.

Tra tutti i film di Woody Allen, Midnight in Paris (2011) è sicuramente uno dei meno amati, almeno nella cerchia più conservatrice dei fan del regista americano. Il motivo è semplice: se Midnight in Paris fosse stato diretto da un qualsiasi altro regista di commedie romantiche, il suo successo sarebbe stato triplicato, ma il problema è che gli aficionados di Allen si aspettano sempre lo stesso incespicante monologo sui grandi sistemi filosofici, le stesse figure dai contorni sbiaditi e la stessa ostentazione esasperata della ricchezza materiale messa alla berlina dall’ironia sbeffeggiatrice di personaggi dotati di acume critico, che per anni hanno caratterizzato i film del celebre Woody.

Si sa, “le cose cambiano” e una conseguenza inevitabile è che anche l’arte finisce per adattarsi a un pubblico nuovo, dalla mente più svelta, più ingarbugliata, che al cinema cerca distensione e non altri arrovellamenti cerebrali. Il linguaggio di Midnight in Paris è molto più fruibile, la trama più lineare, i dialoghi più razionali. Non sarà il vero stile Allen, ma non è di certo un risultato disdegnabile. In fondo, rispetto ad un qualunque regista, parliamo comunque di un risultato che va molto al di là di una comune commedia sentimentale.

L’idea di base, l’intreccio narrativo, la scelta delle musiche, il meraviglioso montaggio di immagini su Parigi durante i titoli di testa, la fantasia e il temperamento malinconico del protagonista fanno sì che il film sia appetibile ai non habitué del regista e, allo stesso tempo, sia nettamente sopra le righe rispetto a pellicole più commerciali. Non mancano i rimandi eruditi e sprezzanti, che restituiscono al film lo stile Allen originale, ma tutto è stemperato dalla delicatezza romantica delle ambientazioni e da una trama avvincente, che invoglia lo spettatore a domandarsi come andrà a finire.

In California, Gil (Owen Wilson) è uno scribacchino di copioni per Hollywood, ma la sua indole sognatrice l’ha finalmente convinto a cambiar rotta e a dedicarsi al romanzo della sua vita. La sua futura moglie Inez (Rachel McAdams), ingioiellata e imborghesita a dovere, non sembra credere troppo nei progetti e nei sogni ad occhi aperti di Gil e cerca senza speranza di riportarlo con i piedi per terra. Ma lui è un inguaribile nostalgico degli scintillanti anni Venti a Parigi e il suo romanzo ha per protagonista il proprietario di un negozio di “nostalgie”: oggetti del passato che sono ormai un lusso e un vizio di pochi, esperti collezionisti.

Il caso vuole che proprio durante un viaggio nella capitale francese, con futuri moglie e suoceri, Gil riscopra ogni notte a mezzanotte la magia di quel meraviglioso decennio. Come? È qui che entra in gioco il vero colpo di genio di Allen: una Peugeot 174 gialla recupera ogni notte Gil davanti alle scale di una chiesa e lo riporta indietro nel tempo (per chi voglia fare una capatina nel luogo magico del film: le scale si trovano proprio di fianco alla chiesa di Saint-Etienne-du-Mont, poco lontano dal Pantheon).

Durante le sue notturne escursioni nel tempo, Gil ritrova tutti i suoi miti del passato: da Pablo Picasso a Salvador Dalì, da Hemingway ai coniugi Fitzgerald, da Luis Buñuel alla seducente Adriana (Marion Cotillard), amante di Picasso ed ex amante di Modigliani, della quale Gil si innamora al primo sguardo. Dall’eccitazione delle prime notti, in cui Gil non fa che chiacchierare e ammirare gli autori delle sue migliori letture e gli artisti delle opere d’arte che l’hanno maggiormente commosso, i salti indietro nel tempo si caricano della frenesia dell’amore e del desiderio febbrile di  ritrovare ogni notte Adriana.

Tutto cambia quando la nostalgia per il passato sembra diventare un meccanismo applicabile ad ogni epoca. Adriana , infatti, è perdutamente innamorata della disinibita euforia della Belle Époque, che considera l’età migliore di Parigi, quella in cui avrebbe desiderato vivere. Accade così che i due, Adriana e Gil, si ritrovino indietro di un quarto di secolo, nell’atmosfera soffusa di quei locali animati dagli ampi tessuti delle gonne da can-can, seduti al tavolo con Toulouse-Lautrec, Edgar Degas e Paul Gauguin.

Il circolo della malinconia è, però, destinato a spezzarsi e Gil a riprendere la sua vita nel mondo reale, dove ad aspettarlo c’è una nuova fiducia nei suoi progetti, una nuova vita e una vecchia città di immortale bellezza nella quale decide di ricominciare a costruire la sua epoca.

La storia di Gil è una storia universale, è l’atemporale desiderio di guardare al passato come un’epoca migliore, che accomuna gli uomini dotati di sensibilità artistica. L’erba del passato è sempre più verde, sembrerebbe la morale della favola e, in effetti, un piacevole rimpianto per i tempi passati si insinua in tutte le creazioni artistiche sotto forma di ispirazione, di ricordo, o di semplice sfoggio di conoscenza.

Sebbene in Midnight in Paris non manchino i monologhi à-la- Allen – che Owen Wilson riesce ad imitare con incredibile destrezza anche nei toni e nella balbuzie –  essi non hanno più il ruolo centrale che assumevano nei “vecchi film”. Hanno, invece, il carattere di ingredienti aggiunti al normale svolgimento dei fatti, diventano elementi di decoro, una sorta di firma d’artista del regista.

Gil è sicuramente un personaggio woodiano, ma le spigolature del suo carattere sono notevolmente addolcite. Buona parte di questa smussatura è sicuramente opera dell’interprete: Owen Wilson è un’icona delle commedie romantiche, ha un volto che ispira tenerezza ed è chiaramente molto più empatico del classico Woody. È però innegabile un’intenzione registica di creare un personaggio più vicino ai desideri del pubblico e soprattutto di offrire una storia, uno sviluppo di eventi, una trama in senso stretto.

Nei classici del regista newyorchese – il riferimento è, ad esempio, a Io e Annie (1977), Manhattan (1979), Zelig (1983), Harry a pezzi (1997) –, la trama diventava, invece, un elemento di second’ordine. Sono film che si apprezzano per la costruzione dei dialoghi, l’invenzione dei personaggi e dei loro complicati trascorsi, per le citazioni colte tra le righe, per l’acume registico, per la ricerca accurata della fotografia che ne fanno delle vere e proprie icone del cinema contemporaneo. Woody Allen è citato un po’ ovunque: nei Simpson, nei film dei suoi colleghi registi, nelle serie tv e, talvolta, si auto-cita egli stesso, tanto da essere diventato un’etichetta con le sue peculiari caratteristiche, che nessun altro regista riuscirebbe, o si azzarderebbe, ad imitare.

È anche vero che la produzione post-2000 di Woody Allen ha subito qualche importante cambiamento. Prima di tutto, si diceva già a proposito di Midnight in Paris, un addolcimento delle criptiche spigolature dei dialoghi. Abbiamo detto che il film non rifugge da dotte citazioni e da allusioni a più o meno celebri scrittori, ad antiche e nuove posizioni ideologiche, ma è come se il regista avesse deciso di abbassare un po’ i toni. I rimandi eruditi, sebbene ancor presenti, sono resi più comprensibili al pubblico. Basterà, a titolo dimostrativo, il confronto tra l’esplicita citazione di Delitto e Castigo in Match Point (2005) e la sottile ironia ispirata dalla stessa letteratura russa in Amore e Guerra (1975).

Un altro cambiamento importante è l’abbandono degli attori feticcio, tra cui l’adorata Diane Keaton, e l’uscita di scena dello stesso regista, che riappare solo in sporadici e marginali cameo. Alcune delle più celebri pellicole di Allen sembrano essere cucite sul personaggio di Diane, per non parlare dell’egocentrismo artistico del regista, che rende ogni suo film una riesumazione sgangherata dei suoi demoni e dell’insondabile ragione del fallimento delle sue vicende amorose e sessuali.

Nei suoi primi film, Allen si racconta dietro e davanti alla telecamera, posizionandosi al centro di un’autocelebrazione della sua complessa e stravagante filosofia di vita. A nessuno sfugge l’egocentrismo velatamente altezzoso nella produzione di Woody Allen, ma è una peculiarità dei grandi geni mettersi al centro del proprio lavoro. Si pensi alla sfacciata vanità di Salvador Dalì, tratto distintivo non solo del suo carattere, ma della sua stessa opera: senza una totale ed eccessiva fiducia nelle proprie capacità, la mentre umana non può superare certi confini, che si parli di arte, di matematica, di fisica applicata, o di qualsiasi campo della ricerca. La genialità germoglia sul terreno fertile della consapevolezza di sé e dei propri limiti, o della propria mancanza di limiti!  La fiducia in se stessi e nelle proprie capacità è, infatti, uno dei principi basilari formulati da Strasberg[1] nel suo metodo.

Un’altro tratto peculiare dei film di Allen degli ultimi diciassette anni è il viaggio oltre i confini degli Stati Uniti. Non più solo grattacieli, piccoli appartamenti con scale antincendio e panchine davanti al ponte di Brooklyn. Ciò accade, appunto, per Midnight in Paris, ma anche per Vicky Cristina Barcelona, To Rome with love e Magic in the Moonlight. L’attrazione per l’Europa diventa il nuovo pallino di Allen per alcuni anni, e chi dice che non sia finita qui.

L’impressione, però, riguardo all’europeizzazione della recente produzione alleniana, è che il regista guardi al vecchio continente senza mai abbandonare la prospettiva americana. I protagonisti di questi quattro film sono sempre statunitensi in viaggio o alla scoperta dell’Europa, ma nessuno di loro riesce a carpire la vera essenza dell’essere europeo. Percepiscono il fascino del nostro continente, ne sono ammaliati, trovano l’amore, si perdono nella bellezza dei paesaggi, della ricchezza artistica di musei, piazze e antichi palazzi, ma restano stolidamente americani. È così che Woody guarda all’Europa, come ad un affascinante micro-continente stracolmo di cultura, storia, buona cucina e piccole strade in stile medievale che si offrono gratuitamente all’obiettivo nel loro incantevole romanticismo.

In tal senso, Midnight in Paris costituisce l’unica eccezione: a differenza di Vicky e Cristina, Gil si lascia rapire dalla malinconica magia di Parigi e realizza il desiderio di vivere per sempre nella città dei suoi sogni e delle sue “nostalgie”.

Midnight in Paris non sarà di certo il capolavoro di Allen, ma costituisce un innegabile caposaldo della sua produzione cinematografica. I suoi toni – diremmo in modo un po’ azzardato “bassi” – sono riusciti ad accattivarsi un’importante fetta di pubblico. Il film è, infatti, considerato il miglior successo di Allen degli ultimi dieci anni, registrando un incasso mondiale di 94.302.174 dollari. In Italia, Midnight in Paris è stato il film del regista con maggiori incassi nella storia: ben 2.203.671 euro in appena tre giorni. Né sono mancati i riconoscimenti: tra le tante nomination, il film ha infatti ottenuto il premio Oscar e il Golden Globe per la Migliore sceneggiatura originale.

Insomma, le cifre ci sono e ci sono anche gli apprezzamenti della critica. Midnight in Paris è sicuramente un ottimo film, capace di toccare le corde giuste, di emozionare e far riflettere. Perciò, anche se siete appassionati dei vecchi, intramontabili classici di Allen, il consiglio è di abbandonare la lente opaca del fan conservatore e lasciarsi trasportare dalla seducente fotografia, dal fascino malinconico e dalla scintillante euforia del charleston della Parigi di Gil dopo la mezzanotte.

[1] Lee Strasberg (1901-1982), inventore del metodo che porta il suo nome. Il metodo Strasberg nasce nel mondo del teatro, ma è applicabile a tutte le arti. È considerato un caposaldo dell’insegnamento della pedagogia teatrale e una risorsa indispensabile per la creazione artistica.

Anna Fusari

Anna Fusari frequenta un Master in Editoria, Giornalismo e Management Culturale a Roma. Inizia gli studi universitari in Lettere Moderne a Napoli e continua con un Double Degree in Filologia Moderna tra Padova e Grenoble. Dopo una lunga tappa francese a Montpellier, torna in Italia per realizzare il sogno di trasformare in lavoro la sua più grande passione: i libri.

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