Il protagonista sarà al centro della scena per tutta la durata del film, pedinato dal regista e immortalato da ogni angolatura, quasi come se una lente d’ingrandimento si fosse posata sulla sua vita. Dopotutto l’eterno enfant prodige di Hollywood ha sempre cercato col suo cinema di scrutare il lato oscuro della psiche dell’uomo con l’obiettivo di comprendere i motivi dei suoi comportamenti, molto spesso ricapitolati in un sentimento di profonda solitudine. Soli erano i protagonisti di Magnolia nel disperato tentativo di sfuggire alle piaghe da essi stessi inferte. Solo era il pornodivo Dirk Diggler e gli altri personaggi gravitanti attorno al luccicante mondo del cinema a luci rosse di Boogie Nights. E solo è Daniel Plainview, assediato dai suoi stessi fantasmi, incapace di trovare tregua al dolore che lo dilania e lo allontana da qualsiasi forma di affetto. In un dialogo con il falso fratello confessa:
Io sento la competizione in me, io non voglio che altri riescano. Odio la maggior parte della gente. Alcune volte io guardo le persone e non ci trovo niente di attraente. Voglio guadagnare così tanto da poter stare lontano da tutti.
Evidenti sono i rimandi al film muto di Erich von Stroheim, Greed – Rapacità (1924), così come non mancano parallelismi con l’ostinato capitano Achab di Moby Dick o con il magnate della stampa Charles Foster Kane di Quarto potere, un uomo ugualmente incapace di amare che trascorre, proprio come Plainview, gli ultimi anni della sua vita nell’isolamento di una gigantesca dimora. L’altro volto, però, dell’America è rappresentato dalla religione cattolica, incarnata dal giovane predicatore della “Chiesa della Terza Rivelazione”, Eli Sunday (un ispiratissimo Paul Dano). Sia lui che Plainview sono la personificazione del capitalismo ed entrambi sono chiaramente figli dell’etica protestante, che sfruttano per raggiungere i loro scopi. La stessa etica protestante che Weber aveva individuato come tipica di quelle comunità nelle quali lo «spirito del capitalismo» affonda le proprie radici e che avevano veicolato l’idea che il profitto fosse l’indicatore della grazia divina.
Sullo sfondo la collettività si eclissa in un ruolo minore, passivo di fronte al predominio di pochi. Nemmeno il dramma del piccolo H.W, il figlio adottivo divenuto sordo in seguito ad un incidente, riesce a scalfire in Daniel la ferocia individualista da animale predatore che divora tutto – anche se stesso – la quale non finirà finché non avrà rimosso tutti gli ostacoli ed eliminato tutti i nemici. «I’m finished», ho finito. È questa la frase che il protagonista pronuncia prima di mandare a nero lo schermo in quel palcoscenico tutto americano che è la pista da bowling della sua magione, dove ha appena assassinato Eli Sunday. Probabilmente è soltanto un baratro di annichilimento quello che ha realizzato di aver terminato Daniel Plainview, ormai ridotto ad un essere subumano, simile nella postura e nella mimica al Nosferatu di Friederich Wilhelm Murnau.
Perché in fondo “Il petroliere” è un film dell’orrore. L’orrore della voracità, l’orrore dell’America di ieri, ma anche e soprattutto dell’America di oggi. L’orrore di un tempo armato in cui sulla scacchiera della Storia sono ancora i poteri religiosi e quelli economici a fare da padroni. Un tempo in cui, non c’è dubbio alcuno, continuerà a scorrere del sangue.
Valerio Ferrara
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