L’amica geniale, E. Ferrante. Un’amicizia geniale, ma non solo

Appena conclusa la lettura di L’amica geniale di Elena Ferrante, sarò una voce fuori dal coro. Non mi unirò agli elogi incondizionati, a chi considera questo libro come un capolavoro, a chi definisce l’autrice come la più grande narratrice della sua generazione. Non lo penso. Ma penso che sia un buon libro, con luci e ombre.

Cominciamo da due parole sull’autrice. Per coloro a cui può essere sfuggito (sì sì, sono ironica), Elena Ferrante è una scrittrice che non ha mai svelato la sua identità, che probabilmente si cela dietro uno pseudonimo, e che è molto letta e molto apprezzata sia in Italia che all’estero. Pubblica per le Edizioni E/O. Il suo primo romanzo, L’amore molesto, è del 1992; seguono altre pubblicazioni fino a L’amica geniale, del 2011, che è il primo volume di una quadrilogia, costituita poi da Storia del nuovo cognome del 2012, da Storia di chi fugge e di chi resta del 2013 e da Storia della bambina perduta del 2014. In questi quattro volumi l’autrice narra la storia e l’amicizia di Lila Cerullo ed Elena Greco a partire dalla loro infanzia, negli anni Cinquanta del secolo scorso, e seguendole poi per diversi decenni. È un grande affresco dove si osserva l’evoluzione dei personaggi, ma anche di una città, di un Paese, di una società.

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Il primo romanzo, quello che ci interessa qui (e che si legge come una storia compiuta, nonostante la narrazione prosegua nei tre successivi), racconta l’infanzia e l’adolescenza delle due protagoniste attraverso il prisma della loro amicizia (nel senso che la loro infanzia e la loro adolescenza, così come la personalità in divenire di ciascuna delle due, sarebbero state altra cosa senza quest’amicizia). Le due protagoniste, così come un certo numero di personaggi secondari tutti molto ben caratterizzati, si muovono in un rione della periferia di Napoli.

Un bel libro, dicevo. Ben scritto, ben costruito, con alcuni passaggi di altissima qualità e commovente profondità. Avremmo potuto fare a meno di qualche decina di pagine (e di alcuni dialoghi in particolare), non per una contrarietà per principio all’abbondanza e preferenza per la brevità, ma per un senso di noia che mi ha fatto desiderare di arrivare presto alla fine; parti, insomma, non all’altezza del progetto. Poi, invece, c’è come un salto di qualità, in questo senso, a partire dal racconto della vacanza di Elena a Ischia: a partire da lì non c’è neanche una parola di troppo e sembra compiersi la promessa della quarta di copertina che recita «[P]rovate a leggere questo libro e vorrete che non finisca mai».

Questo libro, che è di difficile classificazione, che è tante cose ma tutte “non solo”, intreccia le sue diverse identità: è romanzo di formazione ma non solo, è romanzo sociale ma non solo, è romanzo di costume ma non solo.

Tre dei punti di forza del romanzo sono l’analisi e la costruzione dei personaggi (e in particolare delle due protagoniste), l’analisi sociale e il tema dell’educazione (e dell’eventuale riscatto) attraverso gli studi.

È interessantissimo il modo in cui viene descritta la psicologia delle due piccole protagoniste, fin dalla più tenera età, e il modo in cui le loro due personalità si combinano rendendole non solo compatibili ma addirittura complementari.
Elena, la voce narrante, introduce la sua amica Lila così:

Lila comparve nella mia vita in prima elementare e mi impressionò subito perché era molto cattiva. Eravamo tutte un po’ cattive, in quella classe, ma solo quando la maestra Oliviero non poteva vederci. Lei invece era cattiva sempre.

E poche pagine dopo ne offre questa bellissima descrizione:

La sua prontezza mentale sapeva di sibilo, di guizzo, di morso letale. E non c’era niente nel suo aspetto che agisse da correttivo. Era arruffata, sporca, alle ginocchia e ai gomiti aveva sempre croste di ferite che non facevano mai in tempo a risanare. Gli occhi grandi e vivissimi sapevano diventare fessure dietro cui, prima di ogni risposta brillante, c’era uno sguardo che pareva non solo poco infantile, ma forse non umano. Ogni suo movimento comunicava che farle del male non serviva perché, comunque si fossero messe le cose, lei avrebbe trovato il modo di fartene di più.

Fin da subito, quindi, Lila viene presentata come una bambina cattiva, orgogliosa, spregiudicata, ma anche intelligentissima (di un’intelligenza fuori dal comune), ed Elena comincia a muoversi alla sua ombra accettandone di buon grado, sono le sue parole, la superiorità (e sviluppando anche una sorta di dipendenza: «Dovetti ammettere presto che ciò che facevo io, da sola, non riusciva a farmi battere il cuore, solo ciò che Lila sfiorava diventava importante»).

Passano alcuni anni e la relazione fra le due si evolve, certi equilibri cambiano e in modo quasi impercettibile talvolta si ribaltano, Elena dice: «Mi sentivo fragile, esposta a tutto, non potevo passare il mio tempo a inseguirla o a scoprire che lei mi inseguiva, e nell’un caso e nell’altro sentirmi da meno». Le loro vite iniziano a divergere (senza che questo rimetta in discussione l’esistenza della loro amicizia), e la discriminante sarà proprio la possibilità che avrà Elena di frequentare la scuola media e poi anche la scuola superiore, possibilità che verrà invece negata a Lila nonostante le sue enormi potenzialità e la sua mente brillantissima. La battuta di Lila nelle ultime pagine, che si rivolge a Elena dicendole «[T]u sei la mia amica geniale, devi diventare la più brava di tutti, maschi e femmine», rivela, forse inaspettatamente, un sentimento nobile, generoso, senza l’ombra di invidia o gelosia.

immagine1Ora, il secondo aspetto che fa la qualità di questo testo, ovvero il contesto sociale, è strettamente legato al primo, nella misura in cui la personalità e la psicologia dei personaggi sono certamente influenzate e addirittura forgiate e determinate da questo contesto.
Il rione in cui si muovono fa pensare, fatte salve le mille differenze, alla pratoliniana via del Corno delle Cronache di poveri amanti: un microcosmo che è molto più di uno spazio geografico, dove i personaggi si agitano e agiscono sempre mantenendo l’endogamia, privi dei codici per uscirne o per capire ciò che sta aldilà delle barriere invisibili che li confinano.
Qui si tratta di un rione povero della periferia, fatto di una quotidianità di insulti e violenza, di vendette e anche di malavita. Nelle case e per la strada si urla, ci si ferisce e si può anche arrivare a uccidersi, durante i litigi gli oggetti vengono rotti o buttati dalle finestre, qualche volta dalle finestre possono essere gettati anche i bambini (come accade a Lila). E poi non si proseguono gli studi dopo la scuola elementare, e men che meno se sei una femmina.
Simbolicamente è molto bello il primo tentativo che le due bambine fanno di uscire dal rione per andare a vedere il mare: questo spingersi oltre, sfidando i divieti, fallendo però nell’intento, obbligate a tornare indietro correndo, sorprese da un temporale.
È molto rappresentativo, da questo punto di vista, il passaggio in cui la narratrice dice:

Non ho nostalgia della nostra infanzia, è piena di violenza. Ci succedeva di tutto, in casa e fuori, ogni giorno, ma non ricordo di aver mai pensato che la vita che c’era capitata fosse particolarmente brutta. La vita era così e basta, crescevamo con l’obbligo di renderla difficile agli altri prima che gli altri la rendessero difficile a noi. Certo, a me sarebbero piaciuti i modi gentili che predicavano la maestra e il parroco, ma sentivo che quei modi non erano adatti al nostro rione, anche se eri femmina. Le donne combattevano tra loro più degli uomini, si prendevano per i capelli, si facevano male. Far male era una malattia. […]. Erano contaminate più degli uomini, perché i maschi diventavano furiosi di continuo ma alla fine si calmavano, mentre le femmine, che erano all’apparenza silenziose, accomodanti, quando si arrabbiavano andavano fino in fondo alle loro furie senza fermarsi più.

Saranno poi gli studi che permetteranno a Elena il passaggio dall’altra parte, che le permetteranno di uscire dal rione, tanto fisicamente (ogni giorno andando a scuola) che in senso figurato, dandosi i mezzi di poter aspirare ad altro. Alla fine del romanzo, in realtà, non si sa ancora se Elena effettivamente compirà questo salto, se realizzerà questo riscatto sociale, ma nelle ultime pagine si leggono queste bellissime righe di presa di coscienza:

[C]ominciai a sentirmi in modo chiaro un’estranea resa infelice dalla mia stessa estraneità. Ero cresciuta con quei ragazzi, ritenevo normali i loro comportamenti, la loro lingua violenta era la mia. Ma seguivo anche quotidianamente, ormai da sei anni, un percorso di cui loro ignoravano tutto e che io invece affrontavo in modo così brillante da risultare la più capace. Con loro non potevo usare niente di ciò che imparavo ogni giorno, dovevo contenermi, in qualche modo autodegradarmi. Ciò che ero a scuola, lì ero obbligata a metterlo tra parentesi o a usarlo a tradimento, per intimidirli.

E parlando di Alfonso, ragazzino dello stesso rione ma che anche frequenta la stessa scuola, Elena usa due parole chiave sintetizzando questo concetto e dice che con lui condivide l’origine e la fuga.

Fatte salve, anche qui, le molte differenze, si può pensare alla grandissima scrittrice francese Annie Ernaux – ad esempio Il posto Gli armadi vuoti – per la quale le umili origini, la progressiva presa di coscienza dell’inadeguatezza (in particolare con la scoperta che a casa e a scuola si parla in modo diverso, le cose si dicono in un altro modo), le contraddizioni e il dolore di non riconoscersi più nel ceto sociale e culturale di provenienza ma di non sentirsi mai del tutto appartenente a quello a cui si aspira, il desiderio fortissimo di riscatto sociale da compiere attraverso gli studi sono tutti temi centrali descritti con una forza e una profondità laceranti, in una prosa che è poesia, senza anestesia.

L’amica geniale non è fra i libri che cambiano la vita, né fra quelli che sentirò il bisogno di rileggere o regalare alle persone che amo. È tuttavia una lettura gradevole e interessante, con una prosa scorrevole. Un progetto narrativo di ampio respiro che sa trasportare il lettore nelle vie di un rione napoletano, facendolo tornare indietro di più di mezzo secolo, per sentire e vedere vivere due ragazzine, per osservarle crescere in una realtà dove crescere può anche significare dover mettere da parte i propri sogni anziché cercare di realizzarli.

Manuela Corigliano

 

Manuela Corigliano nasce vicino a Milano il 26 luglio 1979. Si laurea, a Milano, in Lingue e Letterature Straniere con una tesi a cavallo fra linguistica francese e traduttologia. Circostanze professionali e personali la rendono perfettamente trilingue (francese e spagnolo, oltre all’italiano). Dal 2005 vive a Parigi, dove si occupa di traduzione e correzione di testi. La letteratura è il suo respiro, tra un’apnea e l’altra. Lettrice vorace nelle sue tre lingue di lavoro, scrive in versi e in prosa.

4 Responses

    1. Ciao Miriam! Grazie per il commento. Naturalmente un pezzo cosi’ corto non ha vocazione ad essere esaustivo nell’analisi. Ma dimmi a cosa ti riferisci quando parli degli elementi che mi mancano, mi farà piacere leggerti e avere la tua opinione! Spero a presto, Manuela C.

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