Espiazione, I. McEwan. Immaginazione e menzogna

Immaginazióne – 1. Particolare forma di pensiero, che non segue regole fisse né legami logici, ma si presenta come riproduzione ed elaborazione libera del contenuto di un’esperienza sensoriale, legata a un determinato stato affettivo;  […] può dar luogo a una attività di tipo sognante (come nei cosiddetti «sogni a occhi aperti»), […] o anche, con un meccanismo che si riallaccia all’intuizione, a conclusioni ricche di contenuto pratico.

Questa (in parte) la voce “immaginazione” nel vocabolario Treccani.

Obbedendo a un criterio più o meno neutrale, la voce si limita a descrivere – come pare, ma non è, superfluo sottolineare – il significato di un sostantivo usato e abusato nel linguaggio quotidiano e pertanto soggetto spesso a deformazione e generalizzazione. Come capita troppo diffusamente di dimenticare, e in particolare in questo nostro caso, la semplice – nella più positiva accezione del termine – definizione di un concetto astratto diventa lo strumento più limpido e illuminante per esaminarne la funzione.

Ma perché partire così da lontano?

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Dando per scontato che l’immaginazione costituisca la fonte da cui sgorga ogni opera artistica, la necessaria qualità per elaborare qualsiasi forma d’arte, anche la più mera rappresentazione fotografica della realtà, cerchiamo di sprofondare ancora di più verso le radici di questo concetto.

A un primo livello l’immaginazione è alla base della creazione della storia stessa, e ha come protagonisti lo scrittore, il suo cervello e il foglio bianco.
A un secondo livello entrano in gioco i personaggi: l’immaginazione-strumento che muove la penna dell’autore delinea una serie infinita di ulteriori immaginazioni-percezioni, che impostano le dinamiche della storia e giustificano le azioni e le relazioni dei protagonisti. Ogni personaggio, anche se spesso questo meccanismo ci viene illustrato solo dal punto di vista del protagonista, elabora e rielabora costantemente la realtà creatagli dall’autore e attraverso queste rielaborazioni indirizza il proseguire della storia in una direzione piuttosto che in un’altra.
A un terzo livello – ed è quello che più ci interessa – l’immaginazione diventa – o può diventare – all’interno della storia stessa uno strumento cosciente utilizzato non per i personaggi, ma dai personaggi; e non per indirizzare la storia in una determinata direzione, ma per creare una serie di storie nella storia; l’autore lascia scivolare nelle loro mani la penna ed essi, a vari livelli di consapevolezza, la lasciano scivolare lungo il foglio e rendono l’immaginazione (che a questo punto pare assumere la non univoca definizione di menzogna) una sorta di Τύχη, protagonista e allo stesso tempo motore della narrazione. Mi spiego meglio.

Nell’anno 1993 lo scrittore inglese Ian McEwan pubblica un libriccino di poco più di cento pagine, intitolato L’inventore dei sogni. Esattamente dieci anni dopo, nel 2003, lo stesso autore dà alla luce il suo romanzo forse più noto, Espiazione.

Proviamo ad applicare i tre livelli in cui abbiamo voluto amplificare il concetto di immaginazione a questi due testi.

A un primo livello c’è McEwan che elabora lo spazio, il tempo e la trama delle storie.

Il protagonista de L’inventore dei sogni è un bambino, Peter Fortune. Ha dieci anni, un padre, una madre, una sorellina e un gatto. I grandi dicono che “è un bambino difficile” e, quando cresce un po’, capisce che lo dicono perché “se ne stava sempre zitto”.

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Lo scrittore inglese Ian McEwan

La percezione che i grandi hanno di Peter, e che Peter ha dei grandi, le dinamiche relazionali dei pochi personaggi del libro, costituiscono il secondo livello: ossia, riprendendo la definizione dalla quale siamo partiti “elaborazione libera del contenuto di un’esperienza sensoriale, legata a un determinato stato affettivo”.
Immaginazione dunque intesa come il modo in cui noi immaginiamo il senso del mondo che ci circonda.

Il libriccino è una raccolta di episodi dell’infanzia del piccolo silenzioso ometto che – e adesso cito dalla quarta di copertina – “per sfuggire alla noia e alla normalità della vita” inventa una serie di “avventure inquietanti e rocambolesche” attraverso  i suoi “sogni ad occhi aperti”.

Immediatamente, dunque, siamo slittati al terzo livello: l’immaginazione è già diventata una qualità centrale del protagonista, ma anche e soprattutto il motore e la condizione di esistenza della narrazione stessa. Non ci sarebbero storie se non ci fosse l’immaginazione di Peter.

Peter immagina di diventare il suo gatto; di far sparire la sua famiglia con una Pomata Svanilina; di essere cacciato di casa dalle bambole di sua sorella; e Peter immagina e immagina e immagina per tutte le cento pagine circa del libro. McEwan fa un passo indietro, cede la penna a Peter, ed è lui adesso a scrivere storie che – storie nella storia – la sua immaginazione scatena e dispiega.

Pur nelle sue note inquietanti – come inquietanti sanno essere solo i giochi dei bambini –, nelle sue matrici psicologiche (anzi, psicanalitiche) più profonde, l’immaginazione del piccolo Peter rimane comunque una immaginazione produttiva, fruttuosa: attraverso di essa crea nuovi mondi gestibili e definiti, immensi, ma limitati.

Tale immaginazione relega allo spazio del solo gioco le conseguenze potenzialmente tragiche di se stessa; se Peter si rende conto, dopo aver fatto sparire la sua famiglia con la Pomata Svanilina, che nonostante la cucina disordinata e la casa affollata, preferirebbe riaverla indietro, può facilmente salvare mamma, papà e sorellina tornando semplicemente alla realtà.

Ma quando passano dieci anni dalla pubblicazione de L’inventore dei sogni e McEwan pubblica Espiazione questo processo curativo non è più possibile. L’immaginazione (un complesso plurivoco di percezioni, un aggrovigliato gomitolo in cui è impossibile distinguere il filo della realtà da quello della bugia) viene applicata alla realtà, e dunque analizzata e sventrata nelle sue più pericolose e drammatiche conseguenze.

Anche la protagonista di Espiazione è in principio una bambina piena di rischiosa fantasia. McEwan prende la penna e si alza il sipario. C’è un dramma da mettere in scena: Briony Tallis, tredici anni, perfezionista, intelligente, piena di idee più grandi di lei, lo ha scritto in due giorni “di una creatività tanto burrascosa da farle saltare un pranzo e una colazione”. Il dramma si chiama Disavventure di Arabella ed è stato scritto per accogliere i cugini del nord e soprattutto suo fratello Leon.

Con l’immaginazione dunque si apre la storia; e con l’immaginazione fervida e inquietante di Briony precipiterà; e con l’immaginazione, implacabile, si concluderà l’ultima pagina, calerà pesante il sipario, ma nessuno spettatore sarà più rimasto in sala, perché non c’è mai stato nessuno spettacolo.

Briony non è solo una bambina fantasiosa, Briony è anche una bambina metodica, fondamentalmente un po’ lasciata crescere da sola, scalpitante al pensiero di diventare un’eroina, di custodire un segreto, e allo stesso tempo di costruire per sé e per la gente che le sta intorno un mondo in cui “tutto fosse assolutamente perfetto”.

D’altra parte, non è un caso se McEwan fa iniziare il racconto proprio quando una realtà caotica che Briony non riuscirà a gestire (non come gestisce le caotiche vicende dei personaggi delle sue storie, che arrivano sempre a ristabilire un ordine) invade il suo mondo perfetto. A Villa Tallis arriva sua cugina Lola con i suoi due fratelli, reduci di una “guerra civile in casa” perché i genitori stanno divorziando; a Villa Tallis arriva Leon, il fratello di Briony, in compagnia di un amico, Paul Marshall, industriale della cioccolata.
A Villa Tallis sta succedendo qualcosa di strano che a Briony sfugge, ma di cui intuisce i perturbanti risvolti: qualcosa di strano – di adulto, di confuso, di terribile – sta succedendo tra sua sorella maggiore Cecilia e il figlio del loro domestico, Robbie, cresciuto con loro. La tensione sessuale tra i due, che una ragazzina percepisce appena, esploderà proprio nel momento più pericoloso. Briony non può accettare tutte queste inattese novità senza rimanerne tanto turbata da eccitare la sua fervida immaginazione. Che cosa sta succedendo al suo mondo perfetto?

Da un inizio rallentato fino all’esasperazione, tutto impantanato come acqua stagnante di fontana chiusa, in cui McEwan distende il tempo e lo spazio del racconto per descrivere nei dettagli i personaggi e le dinamiche relazionali di cui sono protagonisti, si giunge d’un tratto e improvvisamente a dialoghi violenti, sesso di nascosto in piedi contro le pareti, grida eccitate, fughe e ricerche. E si conclude la prima parte del libro, che aveva raccontato il trascorrere di una sola giornata: Robbie viene accusato da Briony di aver commesso un terribile delitto, una violenza sessuale ai danni di sua cugina Lola: e viene così accusato per una serie terribile di coincidenze che il collante dell’immaginazione di Briony ha reso verità assolute.

“L’elaborazione libera del contenuto di un’esperienza sensoriale, legata a un determinato stato affettivo; un meccanismo che si riallaccia all’intuizione e dà luogo a conclusioni ricche di contenuto pratico”. 

Non ci sono prove alla colpevolezza di Robbie se non una serie di percezioni e di stati d’animo che hanno coinvolto Briony. Lei diventa dunque la prima accusatrice, lei grida di aver visto qualcosa di cui è realmente sicura a un gruppo di adulti pronti a crederle.

–       Dunque l’hai visto.
–       So che era lui.
–       Lascia perdere quello che sai. Stai dicendo che l’hai visto.
–       Sì, l’ho visto.
–       Come adesso vedi me.
–       Sì.
–       L’hai visto coi tuoi occhi.
–       Sì. L’ho visto. L’ho visto.

Briony non mente: Briony davvero ha visto Robbie nella semioscurità del giardino, di ritorno dall’atroce violenza appena compiuta. E non conta il fatto che fosse buio, che non avesse visto davvero illuminato a sufficienza il volto di quell’uomo, che a spingere la sua fantasia a una terribile conclusione sia stato il suo animo alterato dagli eventi del pomeriggio. La leggerezza, l’immaginazione e il turbamento si combinano, e Robbie finisce in galera, accusato di violenza sessuale.

Ma Robbie è innocente. L’immaginazione ha creato la menzogna, e nel crearla si è trasformata in essa, senza intenti maligni, ma con la precipitosa naturalezza di un effetto domino. E inizia l’espiazione.

Sarebbe più corretto in realtà parlare di espiazioni. Inizia, infatti, nella seconda parte del libro, innanzitutto l’espiazione di Robbie. Espiazione singolare, perché espiazione di un innocente costretto alla galera e poi, per sfuggire a essa, spinto ad arruolarsi: intanto, infatti, brusca fa irruzione nella trama la più temuta delle streghe, la Storia. Scoppia la Seconda Guerra Mondiale.

L’espiazione di Robbie (e di riflesso anche quella di Cecilia, che interromperà i rapporti con la famiglia, diventerà infermiera e continuerà ad amarlo e a credergli per sempre) risulterà essere un’attesa incessante di qualcosa che cancelli il fatidico, maledetto inizio della fine.

Speranze cercate ma tenute a debita distanza per non rischiare d’illudersi; lettere chilometriche scritte per e da Cecilia, promesse di attesa e di amore eterno; affogare dolcemente nei pochissimi teneri ricordi insieme, su un letto di carcere, alle sedute psichiatriche che gli somministrano perché “pervertito sessuale”, e poi in seguito all’addestramento, in guerra, nei fienili maleodoranti, tra soldati, scarponi e latrine. Che cosa deve espiare Robbie, innocente?

La strega Storia permea la realtà, la sporca, vi distribuisce puzze e malattie, ed è solo guerra, d’un tratto, ferite infette e vermi. E in questo fango Robbie forse diventa il simbolo terribile dell’uomo del Novecento, carnefice, ma anche vittima, costretto in trincea a morire senza colpa; così come nel dover abbandonare Cecilia e la dignità di uomo era stato innocente.

E poi c’è Briony. Che cresce. Che capisce. Che intuisce. Che conosce qualcosa che i bambini non conoscono, e ne resta sopraffatta: conosce per la prima volta il dubbio. Il sospetto di aver mentito, credendo di aver detto la verità. A quel punto il dramma, già profondo, tocca la sua più tragica nota. Briony deve espiare la colpa di essere stata se stessa, perché se stessa era quella bambina turbata e fantasiosa che ha distrutto con certezza monolitica e ignoranza totale la vita di tante persone. Così inizia anche il suo lungo processo di espiazione; poiché chiedere scusa non serve, e per di più non ha senso, Briony decide di espiare la sua colpa soffocandola nella sporcizia, nella malattia, nella concretezza della morte, vicino ai malati, ai feriti, ai soldati, alle bombe, al dolore. L’immaginazione della tredicenne Briony è uno specchio caduto nel giardino di Villa Tallis e andato in mille pezzi.
Dai cocci sparsi che riflettono la realtà, deformandola, nasce una colpa terribile che il vomito e il tempo proveranno a cancellare.

Ma McEwan, sin dalla prima pagina, aveva passato la penna alla sua protagonista, aveva detto: sarai tu a immaginare. E non solo a immaginare le Disavventure di Arabella, e non solo a immaginare menzogne, e non solo a immaginare colpe e accuse.
A immaginarne anche le conseguenze.

Solo che, leggendo, il lettore se ne è dimenticato, e se ne ricorderà tragicamente solo alla fine. Cade l’attendibilità del narratore, una volta, quando scopriamo chi ci sta parlando. Cade la sua attendibilità, due volte, quando scopriamo qual era la storia giusta.
O meglio che, infine, una storia giusta non c’è.

Se l’immaginazione di Peter Fortune rimane al sicuro nel recinto del gioco, nei sogni a occhi aperti di un bambino, pur portando dentro di sé tutte le angosce della psiche infantile e umana, l’immaginazione di Briony Tallis  è quella che si dispiega nei suoi risvolti più terribili e inquietanti, che non permette redenzione, ripensamenti, che si applica a una realtà diventando furiosa menzogna, che deforma la vita e ancora una volta, per l’ultima volta, ci racconta che siamo solo quello che immaginiamo di essere.

Beatrice Morra 

 

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