Vivere nella società mondiale del rischio

La notte del 26 aprile 1986, presso la centrale nucleare V.I. Lenin, a pochi chilometri dalla cittadina di Chernobyl, durante un test per il quale erano stati disattivati i sistemi di sicurezza, inavvertitamente esplodeva il reattore n.4, causando la fuoriuscita di un’enorme nube radioattiva. Un’allarmante quantità di particelle con un’emanazione di radioattività circa cento volte superiore rispetto a quella delle bombe americane su Hiroshima e Nagasaki si disperdeva nell’atmosfera, raggiungendo nel giro di pochi giorni gran parte dei paesi europei. Nelle stesse settimane in cui si consumava nell’allora Unione Sovietica il più tragico incidente nucleare della storia, al di là del muro, nella Germania Ovest, veniva pubblicato un saggio dal sapore profetico: si intitolava Risikogesellschaft (nella traduzione italiana La società del rischio), scritto dal sociologo Ulrich Beck. La tesi principale sviluppata in quest’opera è che la società attuale, tramite l’elevato grado di sviluppo tecnologico raggiunto, nel creare ricchezza genera inevitabilmente anche rischi legati al carattere complesso e difficilmente controllabile delle tecnologie stesse. In questa nuova fase della storia dell’umanità siamo testimoni del passaggio a una seconda modernità, cosiddetta «riflessiva», costretta a confrontarsi con sé stessa, con i suoi prodotti, i suoi effetti e i suoi errori. In seno a questa modernità nuova si sprigionano forze sempre più distruttive e si accresce come mai era avvenuto prima la consapevolezza che le sorgenti della ricchezza siano “inquinate” dai crescenti pericoli degli effetti collaterali. Certamente, però, i rischi non possono essere considerati un’invenzione recente: da sempre la minaccia e l’insicurezza sono parte integrante della condizione umana. Tuttavia i rischi e i pericoli di oggi si distinguono in modo essenziale da quelli del passato innanzitutto per la loro natura globale e in secondo luogo per la modernità delle loro cause: essi sono un prodotto diretto della modernizzazione, sono manifestazioni necessarie e permanenti del successo della civiltà industriale a cui i singoli non possono sottrarsi, se non in minima parte.

Nel 2011 il disastro di Fukushima ha dimostrato ancora una volta all’intera popolazione mondiale che di fronte a un gigantesco rischio nucleare nessuna istituzione di base della modernità – scienza, economia, politica – è in grado di offrire una risposta valida. La zona di evacuazione attorno alla centrale ha raggiunto i 30 chilometri, una regione immensa per un paese di superficie e densità come quelle giapponesi, e la contaminazione, che sta procedendo ininterrottamente dal primo giorno dell’incidente a causa dell’impossibilità di sigillare il sito – come è avvenuto a Chernobyl –, durerà ancora per un numero imprecisato di anni. Una catastrofe del genere dispiega il suo potenziale a livello globale, in quanto non possiede confini né geografici, né sociali, né politici, né economici, né temporali. Nulla potrà controbilanciarla o cancellarla.

In un testo del 2007, intitolato Weltrisikogesellschaft (Società mondiale del rischio), ideale continuazione e ampliamento del volume del 1986, Beck chiarisce che rischio non è sinonimo di catastrofe, rischio vuol dire anticipazione della catastrofe. E l’anticipazione della catastrofe non conosce collocazione spazio-temporale o sociale. Per questo, secondo il sociologo tedesco, il rischio mondiale non è altro che la messa in scena della realtà del rischio mondiale; «messa in scena» non nel senso di falsificazione consapevole della realtà mediante l’esagerazione di rischi «irreali», ma in riferimento alla creazione deliberata della possibilità effettiva di un pericolo, la cui minaccia determina le nostre aspettative, occupa le nostre menti e guida le nostre azioni. Traslando questo discorso al conflitto terroristico mondiale, si può affermare che non è l’attentato terroristico in sé, ma sono la messa in scena globale di quell’atto e le anticipazioni, le azioni e le reazioni politiche successive alla messa in scena a minare le basi delle istituzioni democratiche occidentali. L’effetto devastante dell’attentato alle Torri Gemelle non è, infatti, riducibile ai danni causati direttamente dalla catastrofe, bensì alla rottura simbolica che ha provocato, compromettendo la fiducia nelle capacità delle società avanzate di fronteggiare la minaccia terroristica. Le limitazioni di libertà che l’amministrazione Bush ha stabilito in seguito all’11 settembre con il Patriot Act, così come le misure antiterrorismo adottate dall’UE in risposta ai tragici avvenimenti di Parigi, non sono semplicemente le conseguenze di effettivi atti di violenza terroristica, ma sono un prodotto della loro anticipazione globalizzata, ovvero il tentativo di impedire il futuro ingresso di questi eventi in qualsiasi parte del mondo. Per di più oggi le minacce alla pace arrivano da pericoli generici non ben identificabili, diffusi nello spazio globale attraverso la rete de-territorializzata delle «organizzazioni non governative della violenza». In questo modo gli Stati si trovano coinvolti in una guerra permanente, di cui non si può intravedere la fine, in quanto non esiste più un nemico riconoscibile la cui sconfitta può determinare l’esito dello scontro. La minaccia diventa asimmetrica nel senso più radicale del termine. Agli attentati terroristici viene a mancare il fattore scontato per i nemici classici, ovvero la calcolabilità militare. Il suicidio come strumento di assassinio di massa, e quindi di messa in scena della sua aspettativa, conferisce all’attentatore un potere militare immenso, cioè quello di determinare un equilibrio del terrore che nel contesto della società mondiale del rischio può rendere permanente l’aspettativa della catastrofe.

Dalla paura, però, paradossalmente potrebbe nascere un inedito legame sociale, magari attraverso una nuova forma di opinione pubblica. A tal proposito, in un’intervista rilasciata nel 2007 al mensile francese Philosophie Magazine, Beck riportava l’esempio dell’uragano Katrina per evidenziare come i reportage dei media internazionali avessero mostrato il volto dell’altra America, l’America repressa e devastata dalla povertà. Dopotutto la «spinta cosmopolitica» della società mondiale del rischio fa sì che tutti, volente o nolente, vivano in immediata vicinanza con un «altro» al quale non può essere negato il riconoscimento. Le minacce globali che incombono sulle vite di tutti i cittadini del mondo – attentati terroristici, crisi finanziarie, disastri ecologici, mutamenti climatici, proliferazione di virus letali – generano una condivisa esperienza di vulnerabilità e una conseguente presa di responsabilità nei confronti del prossimo. Forse soltanto realizzando il progetto di una «comunità esistenziale di destino» che sappia riconoscere l’Altro e legarsi a esso è possibile uscire dalla “realtà” della paura e sviluppare una nuova forma di cooperazione che garantisca la sopravvivenza di tutti e preservi l’umanità dal naufragio.

Valerio Ferrara

Valerio Ferrara

Valerio Ferrara nasce a Napoli nel 1990. Dopo aver conseguito il diploma classico, frequenta la facoltà di Economia, maturando in seguito la decisione di abbandonare questo percorso e intraprendere gli studi umanistici presso il dipartimento di Scienze Sociali dell’Università degli studi di Napoli Federico II, dove consegue la laurea in Sociologia, presentando una tesi in Sociologia dei processi culturali e comunicativi. La sua più grande passione è il cinema, con una spiccata predilezione per quello d’autore. Amante della musica sin dall’infanzia, è stato membro dei Black on Maroon, una band alternative rock partenopea. Dal 2016 è redattore della rivista Grado Zero.

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