Abitudine e dipendenza patologica in Infinite Jest

Quest’anno Infinite Jest di David Foster Wallace compie vent’anni. E proprio per l’anniversario il mastodontico romanzo americano è tornato in auge tra critici e lettori, facendo parlare di sé su blog e riviste. Qualcuno ne parla senza averlo mai letto, altri, per la struttura ellittica dell’opera, si sono accontentati di una parte del romanzo ma, chi più chi meno, tutti hanno provato a interrogarsi sulla genialità dell’autore, o almeno del romanzo in questione.

L’opera prende nome da un verso dell’Amleto di Shakespeare, in cui il principe di Danimarca riferendosi al giullare di corte afferma: «Alas, Poor Yorick! I knew him, Horatio: a fellow of infinite jest».
Nel romanzo, Infinite Jest, è il nome di una cartuccia spesso chiamata semplicemente “l’intrattenimento”. Il film, che circola clandestinamente e solo in copia dall’inscovabile versione master, ha la capacità di indurre in stato catatonico chiunque la guardi.

La ricostruzione della trama sarebbe ardua, mi propongo però di offrire un quadro quantomeno ordinato del mondo costruito da Wallace.
La situazione è suppergiù questa: Stati Uniti, Messico e Canada sono confluiti nell’Organization of North American Nation (O.N.A.N.); nel Québec (che comprende la regione est degli attuali U.S.A.) il movimento separatista opera attraverso azioni terroristiche; le multinazionali hanno il potere di sostituire gli anni del calendario con i nomi delle loro merci; la popolazione possiede in casa i teleputer (tp), in grado di trasmettere in quasi il 100% dei casi ciò che si desidera guardare.
Entro questo orizzonte si pongono in primo piano le vicende di Hal Incandenza alla Enfield Tennis Academy (l’E.T.A.) e di Don Gately alla Ennet House, casa di recupero dalle tossicodipendenze.

L’E.T.A. e l’Ennet House, per quanto diverse, tendono a somigliarsi. Anche se non entrano mai in contatto nel romanzo, la relazione è intuibile dalle dinamiche che esplicano le dipendenze, cioè dal modo in cui l’intrattenimento o le sostanze stupefacenti influenzano lo stato psichico dei personaggi. Infatti, se per dipendenza intendiamo l’alterazione di comportamenti che da semplici abitudini diventano incessante ricerca di piacere attraverso mezzi, sostanze o comportamenti che sfociano nella condizione patologica, le due strutture finiscono col contenere la stessa specie d’essere umano. Che si tratti di rampolli dell’alta società o di tossicodipendenti di basso rango, la ricerca del piacere è l’unico fine.

Per chiarire: sebbene le droghe nel romanzo abbiano un ruolo particolare – a nessun lettore saranno sfuggite le decine di pagine sui composti chimici delle sostanze – la vera dipendenza evidenziata in Infinite Jest è quella del piacere procurato; a discapito degli altri e anche a costo della propria distruzione.

In una delle conversazioni con David Lipsky tenute durante la promozione del libro, Wallace afferma:

Be’, penso che essere timidi significhi sostanzialmente essere talmente concentrati su se stessi che diventa difficile stare in compagnia della gente. Per esempio, se passo del tempo con te, non riesco neanche a capire se mi stai simpatico o antipatico, perché sono troppo occupato a chiedermi se io sto simpatico a te.

La dichiarazione, per quanto fertile per decine di riflessioni sull’autore stesso, è utile a inserire l’io, l’identità dei singoli personaggi, nel passaggio dall’abitudine alla dipendenza patologica. Nel romanzo ci sono delle pagine, sintomatiche del fenomeno in analisi, in cui viene descritta l’invenzione del videofono, una sorta di telefono per videochiamate. Lo strumento, accolto con entusiasmo dagli utenti diventa successivamente loro tormento emotivo.
I passaggi descritti da Wallace sono questi: (1) l’aggeggio è accolto con piacere dal pubblico che lo utilizza; (2) ci sono persone che cominciano a soffrire l’idea di mostrarsi televideofonicamente in deshabillé, specialmente in alcune ore del giorno; (3) alcune aziende accorrono in soccorso di queste persone realizzando maschere da indossare nelle videochiamate; (4) le maschere, di qualità sempre maggiore, permettono di mostrare un immagine di sé migliore di quella reale e per conseguenza la gente non esce più di casa; (5) la solitudine nelle mura domestiche comporta depressione e insoddisfazione cosicché il videofono viene ritirato dal commercio.
È deducibile quindi quanto abbiano in comune l’alter-ego del videofono e il timido Wallace. Grazie alla maschera e al videofono stesso, è possibile vedere nell’altro il riflesso di ciò che si vorrebbe essere debellando così ogni insicurezza.
Il risultato è una società esclusivamente edonistica, dove domina l’egoismo, e dove il meccanico ripetersi di gesti abituali che inducono piacere non provoca mai assuefazione ma solo un continuo e incessante intrattenimento. Non siamo di fronte a una dipendenza che pone l’individuo ai margini della società in cui vive ma di fronte a una dipendenza che è costante ricerca di qualcosa che facilmente, senza alcuno sforzo, allieti le giornate.

Non ci sono nel romanzo personaggi che si sottraggono a questa logica e non esiste un modo migliore dell’altro per procurarsi piacere. Semplicemente ognuno di loro compie una scelta, che si tratti dell’alcol, delle droghe, della televisione o chissà cosa, al lettore tocca solo seguire l’evolversi d’ogni singola ossessione rappresentata.

E forse l’immagine migliore per capire come si sente realmente il lettore a muoversi tra le strade e gli ambienti di Infinite Jest è suggerita dallo stesso Wallace verso la fine del libro:

Ero in uno zoo. Non c’erano né animali né gabbie, ma era comunque uno zoo.

Antonio Esposito

Antonio Esposito nasce a Napoli nel 1989. È laureato in Lettere e specializzato in Filologia moderna. Attualmente scrive racconti, pianifica romanzi e insegue progetti editoriali di vario genere. Da editor collabora con la casa editrice Alessandro Polidoro, dove dirige anche la collana dei Classici.

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