TUM(U)ORI. 3.

Allo specchio

 

I miei occhi fissati sul mio volto
allo specchio; ecco un punto nero,
un foruncolo, una bolla. Sono sporco.
Premo e schiaccio forte la mia pelle,
voglio l’esplosione di pus e sangue.
Esigo soddisfazione, piacere.

Quella piccola scossa di piacere,
quella che ti fa contrarre il volto,
che dona solidità al sangue.
Istante di luce che spazza via il nero
che si annida sotto la pelle,
quel nero ostinato, ostinato e sporco.

Intorno solo monnezza e sporco,
e sguardi avidi di piacere,
sotto i vestiti freme la pelle
e sempre una maschera sul volto;
ma basta guardare il cielo, nero,
per ricordare il sangue.

Non solo carne, nervi e sangue,
anche merda, pus, piscio e sporco;
e bramosie da mercato nero.
Con gli occhi offuscati dal piacere,
marchiati sul corpo e sul volto,
erriamo in eterno, da pelle in pelle.

Quando accarezzi la sua pelle
pensi mai a quel che c’è sotto? Al sangue?
Quando accarezzi il suo volto
e niente è sbagliato, sporco,
quando ti annulli nel piacere,
credi di essere sfuggito a quell’abisso, nero?

E milioni di volte quest’inchiostro nero
su milioni di pagine, sulla pelle
di milioni di libri, per chissà quale piacere,
ha cercato la verità del sangue.
La verità! In un foglio imbrattato e sporco!
In un incomprensibile, indecifrabile volto.

Se mi volto scompare il sangue?
Scompare lo sporco, vado oltre la pelle,
oltre il piacere, oltre questo cielo nero?

Oltre questo vuoto

 Ma io fuggo, eccome se fuggo! La libertè chiama e io rispondo. Tuta e respiratore per vuoti siderali e via, ciao valigetta strappata con dolore e violenza, in te ho lasciato parte di me.

Mi tuffo nel vuoto tremante come un infante appena sbarcato su Vita, avevo dimenticato la libertà, fuggo, a fatica mi allontano dall’astronave, davanti a me non una stella, non un pianeta, solo il vuoto e la libertà.

Tremo e sudo, ogni movimento nasconde un dolore di aculei nella carne, l’affanno conquista i miei polmoni stremati, lo stomaco si contorce, sudore freddo. Nello spazio nessuno può sentirti scorreggiare. Scopro, con una smorfia tra il dolore e il sorriso, la propulsione a gas intestinale. Simpatico, però, questo spazio profondo, fan bene a girarci i film di fantascienza, la scenografia è quella giusta.

Autostoppizzo un asteroide di passaggio e comodo mi fermo a pensare, a fare il punto, senza croce, della situazione. Alla lunga questo deep space viene a noia e a me viene da pensare a me, ai miei muscoli atrofizzati, al mio volto scavato, alle ossa sporgenti, alla mia solitudine. Sono solo, lei mi ha lasciato solo, su questo residuo di cometa a vagare tra le forze immense del cosmo.

Ah così tu,  perfida, mi abbandonasti su un desolato scoglio? non avevi pietà che inducesse il cuore tuo, aspro, a intenerirsi per me? non questo promettevi con parole al miele a me sventurato. tutte promesse vane, vuote come lo spazio che mi circonda. dal turbine della morte, in cui travolta ti travagliavi, io solo, io ti strappai e come ricompensa verrò dato preda al nulla. quale orrendo buco nero ti generò sotto galassie deserte, qual è la stella che ti concepì e ti gettò fuori da tremende onde di fuoco, quale mostruosa nebulosa, quale Betelgeuse ardente, quale raggelante Rigel, perché così mi ricompensi di averti salvato la vita che amavi? ma è vano il mio lamento. pazzo di dolore, mi dispero ai venti cosmici, che, privi di udito, non possono comprendere il mio pianto, né rispondere. così la sorte crudele, colpendomi oltre misura, nella mia ultima ora, non lascia che orecchio ascolti il mio soffrire. dove mi rifugerò? quale speranza mi sarà d’appiglio? arriverò tra le possenti braccia fiammeggianti di Andromeda? ahimè! da queste mi separano gli ampi gorghi della minacciosa distesa cosmica. e poi è un lido senza rifugi; il mio asteroide è un’isola deserta; e non si schiude una strada d’uscita, con il nulla che mi cinge; mezzo per fuggire non c’è, non v’è speranza, tutto è silenzio, è vuoto, è morto intorno.

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Una telefonata 

 TELEFONO: driin driin driin

LUI: Cazzo di cellulare, pure nello spazio profondo!

TELEFONO: driin driin driin

LUI: Pronto…

LEI: Ma indove caspio sei finito?? sono giorni che ti sei recato a comprare regolari sigarette, sei arrivato su z8_GND_5296?

LUI: Ehi, ehi calmiamoci donzella, qua la vittima sono io, abbandonato su ‘sto sasso desolato, e pria rapito dagli extraterrestri, porci e gelatinosi, e analisi, e aculei, e baratri di tempo spalancati nelle mie vene…

LEI: Oh ma che favole racconti! tu sei uscito, tu ti sei fatto prendere (se è vero), qualcosa avrai fatto, lo sai bene, tu mi hai abbandonata qui e ora mi vuoi relegare nella parte di spettatrice passiva del tuo dramma, ma sai bene che se sei vivo lo devi solo a me.

LUI: Ora, ora mi incazzo!

LEI (con tono deciso, quasi annoiato e una punta di ironia): Eccolo che si mette sulla difensiva, la vittima! come soffri tu non soffre nessuno! impara a dialogare e cresci… e se nel caso decidi di volgere i tuoi passi nella mia direzione vedi almeno di portare mungitura e fuoco, ancora ne sono sprovvista.

TELEFONO: clic … tu… tu… tu

LUI (in un crescendo di rabbia e stupore): Ma… ma…. ma… ma

UN PASSANTE: Giovine! ehi giovinotto! dico a lei, sì a lei che vaga su quel masso…

LUI: Mi lasci stare per cortesia, non è il momento…

UN PASSANTE: Ma no, ma no, non si preoccupi non mi disturba affatto, anzi! non ho potuto fare a meno di ascoltare la sua conversazione… sa il suo sguardo è pari pari lo sguardo di quell’uomo il cui unico scopo era salire in cima a una scala…

LUI: Eh che sorte di merda mi deve affliggere oggi…ma da dove è uscito questo?!

UN PASSANTE: Nooo! e mica era una scala speciale! niente di mistico, nessuna scala allegorica, era una semplice scala di un albergo senza stelle. il fatto è che a ogni scalino il tipo invecchiava di qualche anno e la scala era lunga, niente di chilometrico ma lunga. aggrappato al corrimano avanzava, saliva, con lo sguardo fisso verso l’obiettivo, e non lo fermava il deteriorarsi delle ossa e i muscoli in via di atrofizzazione; la fatica aumentava in maniera esponenziale di alzata in alzata ma lui ostinato, rallentava, boccheggiava, ma non si fermava. a metà scala arrancava, si accasciava, lasciava dietro di sé capelli, denti e anni, ogni scalino costava ore e ore di fatica. alcune persone si fermavano a guardare incuriosite ma lo spettacolo, poco avvincente, le tratteneva solo per pochi istanti. arrivò in cima ridotto in un mucchietto di ossa ricoperte appena da un sottile strato di pelle incartapecorita, era soddisfatto, aveva una certezza, finalmente. aveva lasciato la scala dietro di sé, aveva lasciato la vita dietro di sé, dall’alto poteva vedere i residui della sua esistenza, brandelli di vestiti, una scarpa mangiata dal tempo, sangue sul corrimano, dolore, fatica; solo la morte rimaneva, il giusto prezzo per una scalata. stava per lasciarsi andare, finalmente, quando quelle quattro ossa rabbrividirono sgomente, no, non aveva scalato nulla, i suoi occhi si capovolsero, era solo rotolato giù da una lunga scala, no, non è possibile pensò, ma vide la scala, la vide di nuovo ergersi davanti a sé, con i suoi poveri e mortali resti spiaccicati su ogni gradino…

LUI: Ok, grazie eh, io vado…

UN PASSANTE: …ma il tipo non morì subito, anzi, cominciò a piangere, contemplava la propria miseria e piangeva, frignava e gemeva. pianse fino a sciogliersi nelle sue stesse lacrime, di lui non rimase che una pozzanghera…

LUI (preoccupato, quasi urlando): Ehi! la smetti di seguirmi?!»

UN PASSANTE: Certo, certo è tutto vero… lo so perché l’albergo dov’è successo tutto è il mio albergo! provvidi io stesso a ripulire il pianerottolo dalla pozzanghera… è solo un vecchio albergo senza stelle ma non è mai vuoto, ho visto arrivare clienti anche dal più remoto e sperduto buco di culo del cosmo! così ho capito, l’ho visto nelle centinaia di occhi alieni di un indovenusiano, nelle fotosensibili ventose (dentate, spaventose e irte di piccoli peli neri fluttuanti) di una coppia di aracnoidi, nelle pieghe spaziali di un essere quadrimensionale: ho visto il lento imputridire dell’universo, l’inesorabile marcire di corpi e anime. l’universo è un vecchio decrepito abbandonato nei suoi escrementi stellari….senti, senti come le giganti rosse puzzano di piscio e di rancido, le nebulose non sono altro che bava, sai? guarda la vita come si gonfia, come si espande eccessiva e scoordinata… guarda come corrode pianeti e galassie.

LUI (rassegnato): Sicuro amico! pianeti e galassie…

(Improvvisamente gli occhi del passante si fanno densi e pesanti, il volto diventa lucido come di plastica, la sua figura sembra allungarsi come un’ombra)

UN PASSANTE (con voce stridula e tono ironico): Sicuro amico! pianeti e galassie… e anche te, ma non esclusivamente te e non nel modo in cui credi,  piccolo saccentello…


Grado Zero è una rivista culturale online, nata dall’incontro di menti giovani. Si occupa di cultura e contemporaneità, con particolare attenzione al mondo della letteratura e del cinema.

3 Responses

  1. ebbenesì, meglio non muoversi troppo in fretta: gettare l’occhio oltre l’angolo in anticipo o voltarsi di scatto sono comportamenti a rischio… potremmo cogliere il fondale impreparato (scenografie in allestimento, le viscere del nulla in bella mostra oltre le quinte), potremmo intuire la verità nelle macchie d’inchiostro che imbrattano i pensieri di parole (tipo il test Rorschach, hai presente?). meglio non spremere il cielo nero (potrebbe venir giù uno scroscio di frasi e poi, magari, resterebbe solo una pozzanghera), meglio non avventurarsi nello spazio profondo dove ci attendono in agguato pensieri altrettanto (profondi)…
    ecco. dunque, non posso che continuare a seguire affascinato il dramma oncologico (ontologico?) che prende corpo tra le righe – venate da una riuscita alchimia di dolore e di ironia – mentre il protagonista viene tradito dal suo stesso corpus. notevolissimo il carotaggio psichico, lo scavare viscerale nella fisicità della parola, nel lento imputridire dell’universo e del verso, nella lettura del futuro a mo’ d’aruspice negli escrementi stellari del pannolone d’un giovane/vecchio decrepito.
    e pensa che sull’ultima riga, proprio mentre passavo di là, la ruota d’un cicloturista intergalattico ha centrato la pozzanghera così che uno schizzo nero m’ha fatto leggere “non nel mondo in cui credi”.

  2. è la parola che è consunta e malata come questi universi che ci trasciniamo dietro. Vedo comunque con piacere che anche tu ami dissezionare il piccolo e gracile corpo di questi piccoli insetti di inchiostro digitale che tutti in fila procedono verso chissà quale destinazione! 🙂

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