Scream queen, ovvero il vantaggio di essere donna
Nel 1933, l’attrice Anna Darrow fu protagonista di un’insolita quanto celebre avventura, che la portò dalla città di New York alla sconosciuta e terrificante Isola del Teschio, per poi ritornare a New York e salire in cima all’Empire State Building, mentre una manciata di aeroplani svolazzava intorno all’edificio. La parte sorprendente di tutta la storia, è che a portarla lassù fu un gigantesco gorilla che tutti conoscono con il nome di King Kong. Anna Darrow era interpretata da Fay Wray, che per quasi tutto il tempo in cui la vediamo sullo schermo interagisce con lo scimmione semplicemente urlando.
Fay Wray è unanimemente considerata una delle prime scream queen del cinema horror, forse la prima in assoluto di cui valga la pena avere memoria, benché in realtà sia più appropriato parlare di un’antesignana che di una vera e propria regina dell’urlo; l’intero concetto, e la definizione stessa, vengono abitualmente applicati alle donne nell’horror a partire dagli anni Settanta. L’esigenza di trovare un’etichetta che descriva sinteticamente il ruolo delle attrici nei film dell’orrore fa subito pensare che il gentil sesso abbia una grossa responsabilità sulle spalle. Ma quell’etichetta nasce (e si direbbe pure piuttosto consapevolmente) da una visione marcatamente maschilista del mondo, perlomeno quello cinematografico, per cui sarebbe stato impensabile vedere un giovanotto in preda al panico mentre se la dà a gambe di fronte al villain di turno; un film horror che si rispetti, però, deve avere un cattivo che metta paura, e per arrivare allo spettatore la paura deve passare prima attraverso i personaggi che si muovono sullo schermo, e una donna poteva, e può, comprensibilmente avere paura, scappare, e urlare. Il codice della cavalleria assegnava ancora agli uomini, specie agli albori del cinema horror, il compito di combattere il male e mettere la parola fine alla vicenda.
Non si spiegherebbe altrimenti la stretta parentela che lega film di questo genere all’elemento sessuale onnipresente, se non attraverso il maschilismo imperante: non c’è un altro motivo per cui Tina debba affrontare Freddy Krueger mentre indossa soltanto una camicetta e un paio di mutande, e il fatto che in Halloween si salvi solo la verginale Laurie Strode mentre le amiche vanno incontro a una brutta fine nell’istante in cui cedono ai piaceri della carne, è piuttosto evidente. Tutto è connesso alla nudità, all’eccitazione maschile e al modo in cui una ragazza si approccia al sesso. Del resto anche King Kong spogliava la sua Anna per vedere com’era fatta sotto i vestiti.
Se una donna poteva essere il tramite attraverso il quale il pubblico di maschietti esorcizzava la paura, pure il soggetto terrorizzante poteva appartenere al medesimo sesso, ma la “femminilizzazione” dell’antagonista richiedeva anche una più approfondita caratterizzazione psicologica dei moventi: la donna che brandisce il coltello è mossa da un desiderio di vendetta, ed ecco che arrivano Betsy Plamer in Venerdì 13 e, più tardi, Laurie Metcalf in Scream 2. Quello che doveva essere un universo sorretto da una logica fallocentrica inizia a trasformarsi in un mondo di donne. Mentre al maschio non restava altro da fare che combattere o morire (o sovente ambedue le cose), un soggetto femminile aveva senza dubbio una più ampia gamma di possibilità a disposizione, anche se gridare e scappare non sono azioni comunemente ritenute nobili. Ma soprattutto poteva sopravvivere. Vuoi per galanteria, vuoi perché qualcuno doveva pur rimanere in vita a raccontare la storia, la protagonista di un film horror cominciava a essere decisamente avvantaggiata. Chi l’ha detto, però, che una donna non potesse svolgere anche il ruolo solitamente destinato all’uomo?
Arrivati agli anni Ottanta, prende piede l’abitudine di trasformare il film in una saga cinematografica, talvolta proseguendo un’avventura iniziata nel decennio precedente, e si scopre che le scream queen possono salvarsi non una, ma più e più volte, mentre gli altri attorno a loro cadono come mosche. Ed è a questo punto che succede l’impensabile: le reginette si accorgono che nessun uomo arriverà a salvarle, perché quelli che lottavano dalla loro parte sono già tutti morti, e capiscono che devono vedersela da sole. Lo intuisce Julie James in So cosa hai fatto, quando smette di scappare e affronta l’assassino, o Sidney Prescott che impugna la pistola e spara al serial killer.
È iniziato tutto lì, negli anni Settanta, quand’eravamo ancora convinti che le scream queen sarebbero rimaste sempre un prodotto dell’universo patriarcale che le ha create. E invece vediamo solo adesso che l’imperatrice di tutte le regine urlanti e impaurite, Jamie Lee Curtis, in quello stesso Halloween del 1978 in cui già nella sequenza iniziale cade davanti ai nostri occhi la prima vittima, rigorosamente donna, a petto nudo, e dopo aver fornicato col suo ragazzo, quella Jamie Lee Curtis sottrae il coltello a Michael per difendersi. Fino ad arrivare al sottogenere splatter, o al torture, dove la donna, nei più recenti anni 2000, ha spezzato un po’ di quelle catene ed è passata dalla schiera delle vittime alla sponda dei carnefici; due titoli come Alta Tensione (2003) ed Excision (2012) lo dimostrano.
Le abbiamo elette eroine dei film horror perché facessero quello che gli uomini si vergognavano di fare, e siamo rimasti così stregati, così turbati da loro, che non abbiamo resistito alla tentazione di metterle anche dall’altra parte, quella del cattivo, e alla fine siamo stati completamente soggiogati dal fascino delle donne. Hanno vinto loro, che sono più intelligenti, più veloci, più fortunate degli uomini. Certo, anche più paurose, ma almeno si salvano, loro. Quello dell’horror è uno strano ambiente, dove circolano assassini con le motoseghe, bambine che vengon fuori dai pozzi e individui armati di machete: ecco, in posti così, essere donna conviene.
L’ha ribloggato su Gli Anni e Le Ore.