De Andrè: l’ultimo dei trovatori

La dispersione dei trovatori dalle corti occitaniche verso altre regioni europee, avvenuta dopo la crociata contro gli albigesi, non ha decretato la fine della lirica trobadorica ma il consolidarsi di una tradizione che ha condizionato per secoli la produzione letteraria europea. In Italia, i siciliani furono i promotori di una vera e propria translatio della poesia provenzale che, passando per i siculo-toscani e per gli stilnovisti, attraversando il petrarchismo, è giunta ad infiltrarsi nella letteratura italiana più recente.

Un esempio di questa forte ascendenza sono le poesie musicate di Fabrizio De Andrè. Inserito ormai nelle antologie scolastiche, è stato non a caso definito da Roberto Iovino L’ultimo trovatore. E non è soltanto l’interdipendenza tra parole e musica (motz e so, come amavano dire i trovatori) ad aver permesso di stabilire questo legame, ma anche la ripresa manieristica di temi, topoi e scelte metriche che il cantautore genovese opera rispetto al modello occitano.

Il tema centrale cantato dai trovatori è la fin’amor, che siamo soliti definire sulla scia di Gaston Paris «amore cortese»: espressione che indica il contesto sociale nel quale si sviluppa la vicenda amorosa tra la dama e l’amante. Quest’ultimo, essendo socialmente inferiore alla sua signora, ne diventa metaforicamente vassallo, promettendole assoluta fedeltà al servizio.

Il rapporto d’amore presuppone idealmente l’irraggiungibilità della donna, il cosiddetto «paradosso amoroso» (secondo la definizione di Leo Spitzer) che dà vita alla canso: la dama è una donna sposata che educa l’amante all’affinamento morale, ma il cavaliere ottiene questo privilegio soltanto attraverso la tensione erotica (dezirier); il piacere d’amore invece distruggerebbe questo processo cortese di affinamento. Tuttavia i trovatori non cantano un amore platonico, ma un desiderio sensuale che, restando inappagato, è testimonianza dell’accettazione al «servizio d’amore». Tale atteggiamento di asservimento del poeta-amante muove le canzoni dei più grandi poeti cortesi: Arnaut Daniel si dichiara al servizio della sua amata dai piedi ai capelli; Raimbaut d’Aurenga dice di servire e lodare la sua donna perché è tra tutte la più bella. Ma già Guglielmo d’Aquitania (il primo trovatore di cui si hanno precise notizie storiche) aveva parlato dell’obbligo per l’uomo di obbedire alla sua donna, la cui figura si confonde con la personificazione di Amore.

Otto secoli dopo, scomparso il contesto feudale, sopravvive il topos della sottomissione amorosa che trova eco nella poesia e nella musica del “trovatore” genovese: nel verso che chiude la seconda strofe della canzone Se ti tagliassero a pezzetti il personaggio deandreiano sceglie di offrirsi completamente alla donna adorata, pur sapendo di non poter ricevere altrettanto:

ho assaggiato le tue labbra di miele rosso rosso
ti ho detto dammi quello che vuoi, io quello che posso.

Amore erotico e passionale, dunque, che rende l’innamorato fragile e -piacevolmente- sottomesso alla sua donna. Tornando al topico servizio amoroso trobadorico non si può non fare riferimento ad uno dei principali portavoce dei valori cortesi dell’«amore puro», Bernart de Ventadorn, il quale si sofferma a ritrarre gli stati d’animo dell’amante.

Far me podetz e ben e mau;
en la vostra merce sia;
qu’eu sui garnitz tota via
com fassa tot vostre plazer

(«Potete farmi e bene e male, resti questo alla vostra mercé: io sono sempre pronto a fare quanto vi piace»; trad. di Mario Mancini)

Il tormento delle variazioni (gioia-dolore) che caratterizzano l’esperienza amorosa porta all’estrema rinuncia di sé: l’individualità risulta annichilita dalle esigenze della donna. Bernart lascia intendere questa rinuncia attraverso le immagini del pesce adescato, dell’allodoletta che si lascia cadere, della morte causata dall’eccessivo amore:

Ai las! Com mor de cossirar!

(«Ahimè, come muoio per riflettere!»). Il verbo cossirar esprime la malinconica meditazione e i movimenti psicologici dell’io che si ritira in se stesso per sviscerare la sua fragilità di fronte alla donna, la cui sola visione -dice Bernart- lo fa tremare come le foglie al vento.

La riflessione amorosa e l’inscindibile binomio amore-morte sono temi dolcemente trattati anche da un altro importante trovatore, Folquet de Marselha. Nella canzone Tan mou de cortesa razo racconta il martirio provocato dal troppo amore per la sua donna:

E si Merces no m’i ten pro
que farai? Porrai m’en partir?
Non eu, c’apres ai a morir
de guisa que m sap sobrebo;
qu’inz el cor remir sa faisso
e remiran et eu languis,
car ella m dis
que no·m dara so qu’eu l’ai quis
tan long amen;
e jes per aisso no m’alen
anz dobl’ades mos pessamenz
e muer aissi mescladamenz

(«E se Mercé non mi viene in aiuto in ciò che farò? Me ne potrò andare? Non io, che ho imparato a morire in maniera tale che mi piace moltissimo; poiché nel cuore io vedo il suo volto, e nel guardarla io soffro, perché ella mi ha detto che non mi darà ciò che le ho chiesto tanto a lungo; e tuttavia non m’impigrisco, anzi il mio pensiero raddoppia sempre e così muoio al tempo stesso.» trad. di Paolo Squillacioti).

Per Folchetto, quindi, la morte (anche quella metaforica) come estrema conseguenza del servizio d’amore è considerata un’esperienza paradossalmente salvifica.

Il tema dell’abnegazione dell’amante, vinto da Amore e dall’estrema fedeltà al suo servizio, ha attraversato il tempo fino a riecheggiare nelle canzoni di De Andrè e in particolar modo nella Ballata dell’amore cieco. Un uomo «onesto», innamoratosi follemente d’una che non lo amava niente, asseconda le sue voglie: uccide la madre strappandole il cuore dal petto, poi, sempre sotto il comando della donna, si taglia le vene:

E mentre il sangue lento usciva,
e ormai cambiava il suo colore,
la vanità fredda gioiva,
un uomo s’era ucciso per il suo amore.

Ma la tragicità di questo gesto estremo si metamorfizza nella gioia provata dal suicida per aver superato l’ultima di queste “prove d’amore” richieste dalla sadica donna:

[…] ma lei fu presa da sgomento,
quando lo vide morir contento.
Morir contento e innamorato […]

Per il protagonista di questa canzone, così come per i trovatori, l’esistenza trova senso e godimento solo nel soddisfare i desideri dell’amata. In un’altra canzone di Folquet, Amors, merce: non mueira tan soven, sembra di rivivere il tormento del personaggio della ballata deandreiana:

[…]que viure·m faitz e morir mesclamen
et enaissi doblatz me mon martire;
pero, mieg mortz, vos sui hom e servire
e· l servisis es mi miltans plus bos
que de null autr’aver rics gizardos

(«[…] perché mi fate insieme vivere e morire e così raddoppiate in me il mio martirio; tuttavia, mezzo morto, sono vostro uomo e servitore, e il servizio è per me mille volte meglio che avere da nessun’altra una ricca ricompensa»; trad. di Paolo Squillacioti).

Anche altri temi occitani e, in generale, della letteratura romanza medievale sono stati rielaborati dal nostro poeta contemporaneo; ma non poteva certo mancare, nel repertorio dello chansonnier dei vinti, la più intensa esperienza umana: l’amore sensuale, l’amore agognato, il servizio d’amore che conduce l’innamorato a ricoprire d’oro una donna per un bacio mai dato.

Dunque la gratuità di questo sentimento e, insieme, l’inattingibile trascendenza della donna sono tematiche che superano la distanza cronologica tra le due liriche. De Andrè, inserendosi nel solco della tradizione provenzale, offre nelle sue canzoni raffinate riflessioni sulle contraddizioni e sui paradossi della società contemporanea, facendo confondere la sua figura con quella di un giullare medievale. Mario Luzi, in una lettera all’anarchico cantautore, afferma: «lei è davvero uno chansonnier, vale a dire un artista della chanson. La sua poesia, poiché la sua poesia c’è, si manifesta nei modi del canto e non in altro; la sua musica, poiché la sua musica c’è, si accende e si espande nei ritmi della sua canzone e non altrimenti».[1] Musica, poesia ed esasperazione del sentimento amoroso: sono questi gli elementi che confermano la definizione di De Andrè come l’ultimo dei trovatori.

Giorgia Laricchia

[1] Mario Luzi, Caro De André, in Fabrizio De André Accordi Eretici, a cura di Romano Giuffrida

e Bruno Bigoni, Milano 2008, pp. 13-14, a p.13.

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