Che cosa abbiamo imparato dalla presenza di Geolier a Sanremo

Una polemica così non la vedevamo da anni. Anzi, a memoria mia e, sono certo, di tanti altri miei coetanei, non c’era mai stata. D’accordo, abbiamo avuto il lancio degli spartiti da parte dell’orchestra nel 2010, o il clamore suscitato intorno a Belen Rodriguez e Chiara Ferragni, o le contestazioni contro la satira di Maurizio Crozza (quando il pubblico gli urlava di non portare la politica su quel palco: vi sembra familiare?); però così tante polemiche concentrate intorno a un cantante e alla sua canzone, e così persistenti, io non ne ricordo. Avrete sicuramente intuito che sto parlando di Geolier a Sanremo.

Tutto è iniziato ancora prima che Geolier mettesse piede sul palco, una settimana fa. Il motivo pure lo ricorderete: aveva a che fare con una già archiviata questione linguistica. Questione che ha diviso l’utente medio dei social, giacché il testo della canzone, I p’ me, tu p’ te, sarebbe stato scritto in un napoletano rustico, lontano dalla norma letteraria – insomma, un napoletano reinterpretato da un parlante odierno comune. E già lì, sono scese in piazza (sempre quella dei social) orde di detrattori dello scugnizzo che non sa come si scrivono correttamente le parole che canta, – e chi lo sa realmente, poi? – dall’attore Gianfranco Gallo al narratore Maurizio De Giovanni.

La polemica, in realtà, ha preceduto persino la pubblicazione del testo, quando si seppe che il rapper (rapper?) di Napoli che canta in napoletano avrebbe portato a Sanremo un brano, guarda un po’, in napoletano. Sanremo è il festival della canzone italiana, i cantanti dovrebbero cantare in italiano, giù a tuonare il popolo degli indignati. In effetti, in parte è vero: il regolamento prevede che soltanto le canzoni in italiano possano parteciparvi, e Amadeus ha dovuto cambiarlo per permettere a Geolier di andarci proprio con quel brano lì – tra l’altro ammettendolo con coscienza e candore. Che sia giusto o sbagliato non lo so, e non m’interessa, e nemmeno mi pare il caso di esprimerci con questo è giusto e questo è sbagliato, deve o non deve, giacché le regole le fa il capitano di turno, mica le ha trovate scritte sulla tavola dei comandamenti.

Piuttosto, mi interessa di più ricordare se una simile evenienza si sia mai presentata negli anni addietro. E, indovinate un po’, non è passato neanche tanto tempo. Era il 1992 quando i Tazenda si presentarono a Sanremo con un brano interamente in sardo. Nel 2011, invece, Davide Van De Sfroos cantò in dialetto comasco. Rimanendo in zona partenopea, che diciamo delle partecipazioni di Nino D’Angelo? Anche lui gareggiò cantando in napoletano. A quanto pare, Geolier non è un’eccezione, non è stato il primo e possiamo giocarci tutti i baudi che non sarà neanche l’ultimo. Ma allora cos’è che ha dato tanto fastidio?

Se chiedete a un napoletano, dirà che il problema sta proprio lì, nel fatto che sia di Napoli: perché, secondo una teoria che qui al sud piace tanto, loro, gli altri, quelli che abitano di sopra, non ci vogliono. Sarà pure, d’altronde siamo pur sempre in un’Italia di cori da stadio, propaganda elettorale e aggressioni fisiche di stampo razzista. Solo che, stavolta, credo che la risposta vada cercata soprattutto altrove. Prendiamo la serata delle cover, per esempio. In un tripudio di ospitate, duetti, revival della canzone d’autore nostrana e della dance music anni Ottanta e Novanta, quella di Geolier non è stata l’esibizione migliore: mancava di creatività, mancava di coesione tra le parti, mancava di coraggio di osare fino in fondo. Questo, ovviamente, è il mio giudizio: ma quanti altri hanno trovato di gran lunga superiori le performance tecnicamente impeccabili dei Santi Francesi o di Angelina Mango? In un momento in cui avremmo potuto votare l’originalità dell’arrangiamento e il calore dell’esibizione ancor più che l’artista in sé e il suo brano, è accaduto esattamente l’opposto.

Anche qui: è giusto che si voti solo per fanatismo incondizionato? Chi può dirlo – e, soprattutto, come evitarlo? Quello che ci interessa è, ancora una volta, altro: e cioè comprendere la reazione scatenata dalla vittoria di Geolier durante la quarta serata in tutti coloro a cui lui non piace. Geolier è, per molti versi, un emblema di diversità che riunisce però una nazione intera, che non corrisponde con quella tradizionalmente intesa. In pratica, appartiene a una scena musicale che, nonostante la remuneratività, non è ancora stata definitivamente consacrata e parla ai giovani del nostro paese mentre sembra incomprensibile per le fasce d’età più alte – napoletano a parte, che in questo caso davvero non c’entra. Il problema è che c’è un’altra fetta di pubblico a cui lui non parla, e si appiglia alla lingua in cui Geolier ha scelto di esprimersi per nascondere un disagio ben più grande, ovvero quello di sentirsi tagliati fuori. Fuori da un panorama che sta evolvendo in maniera imprevedibile rispetto a ciò che conosceva, fuori da un’industria che non asseconda più i suoi gusti, fuori da una platea di cui non riesce a fare parte. Solo che fino all’altro ieri Geolier & company se ne stavano relegati nella nicchia, fuori dalle radio e dalle prime serate, e invece adesso cantanti come lui, e come Sfera Ebbasta, Tedua, Gué, Shiva, si stanno prendendo tutto, prima coi sold out, e oggi anche Sanremo – ed è qualcosa che chi non comunica nella stessa lingua (musicale) non riesce a mandare giù.

Gli strali inorriditi della sala stampa di fronte al primato di Geolier sono (anche) quelli di chi si chiede chi diavolo sia costui e come osi piazzarsi così in alto. I già citati Tazenda e Nino D’Angelo, dopotutto, non erano mai riusciti a insidiare il podio. L’anno scorso, Lazza aveva avuto almeno la decenza di non minacciare la vittoria assicurata di Marco Mengoni, tra l’altro presentandosi con un pezzo decisamente orientato verso il pop mainstream (e comunque alla serata cover aveva scelto un altro brano più pop che rap portandosi dietro Emma). E sì, dieci anni esatti fa debuttava all’Ariston Rocco Hunt, anche lui rapper, anche lui napoletano: però si classificò primo tra le nuove proposte, cioè in una sezione della competizione di cui in fondo non importava veramente granché a nessuno (e infatti si vede che fine ha fatto), senza insidiare il trono riservato ai big.

Nel suo miscuglio di lingua napoletana, immaginario hip-hop, provenienza da outsider di chi ancora non ha conquistato il grande pubblico del mezzo televisivo e duetti con altre stelle del rap sempre fuori dal circuito sanremese, Geolier è stato destabilizzante. Anche perché buona parte dei seguaci del festival non si sognerebbero mai di ascoltarlo, ricordiamoci sempre cos’è stata questa manifestazione fino a una manciata di anni fa (e forse anche tuttora).

Insomma, chi ha ragione? I fan di Geolier o il pubblico della kermesse della prima ora? Non è così semplice, perché la faccenda merita anche di essere ribaltata dall’altro lato. Se esistono realtà musicali con cui il festival non ha ancora familiarizzato, dev’essere vero anche a parti inverse, e cioè che il mondo continua fuori dagli stadi, dalle piattaforme, dai quartieri. Sanremo non è Spotify, dove il pubblico può scegliersi la propria musica, ma altrettanto si può dire che la musica non può selezionare il proprio pubblico. Se vai all’Ariston, accetti di uscire dalla tua comfort zone, per quanto enorme essa sia, e confrontarti con chi non è pronto ad applaudirti. Fischi maleducati e domande indecorose a parte, che quelli non se li merita nessuno. La fanbase partenopea, mentre faceva di lui il simbolo di un’identità da difendere e rivendicare (un altro fenomeno che varrebbe la pena di analizzare), si è trincerata dietro la questione dell’antimeridionalismo per non doversi porre una domanda fondamentale: è possibile che ci sia qualcuno a cui Geolier effettivamente non piaccia?

Le proteste della sala stampa potrebbero significare anche questo. Se sei un campione di vendite, non è detto che la tua musica vada a genio a tutti, soprattutto a un pubblico così variegato come quello dell’Ariston – anche perché, se così fosse, il festival avrebbero dovuto vincerlo i Ricchi e Poveri, che su Spotify raccolgono molti più ascoltatori al mese di quanti ne faccia Geolier. Anche i giornalisti hanno i loro gusti, e se ieri consacravano l’album di Geolier come uno dei migliori del 2023, mica è detto che debbano continuare a farlo con tutte le sue uscite a venire. Quella fanbase così nutrita, richiamata in causa anche dal cantante, si è scontrata con il suo stesso limite di estensione. Siamo sicuri, perciò, di voler continuare a urlare al razzismo, anche quando Geolier realizza i numeri migliori a Milano anziché a Napoli? Forse dalla sua presenza in gara, quest’anno, dovremmo tutti imparare una lezione, e cioè provare a infrangere definitivamente la maledetta bolla. Da qualunque parte del pubblico ci troviamo. Solo così accetteremo che un rapper o un ex concorrente di Amici arrivi più in alto di un diplomato al conservatorio, che la qualità non corrisponde sempre alle vendite, che la musica conosce territori enormi, che i gusti sono sempre unici e personali. E, con buona pace di tutti, che il televoto non è sovrano, almeno finché non verrà il prossimo a rivoluzionare votanti e giurie.

Andrea Vitale

Andrea Vitale

Andrea Vitale nasce a Napoli nel 1990. Frequenta il liceo classico A. Genovesi, e nel 2016 si laurea in Filologia moderna alla Federico II. Ama la musica e la nobile arte dei telefilm, ma il cinema è la sua vera passione. Qualunque cosa verrà in futuro, spera ci sia un film di mezzo. Magari, in giro per il mondo. Attualmente frequenta un Master in Cinema e Televisione.

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