Racconto: Quanto mi resta – Dario Landi

Racconto: Confine
Call: Conto alla rovescia


«Vuole sapere quanto le resta da vivere?» mi chiede il dottore. Non rispondo. Tossisco, fisso il muro. Il dottore si schiarisce la voce. Sento il click ripetuto della penna che scatta.
«Tre giorni»
«Siete voi che dovreste preoccuparvi»
Sento le occhiate che corrono fra lui e le guardie, con le chiavi della cella che tintinnano appese alle cinture sotto le pance strabordanti.
«Il carrello col pranzo è nel corridoio. Abbiamo fatto il possibile, ma nelle sue condizioni non possiamo esagerare con i sapori. Riso in bianco, verdure al vapore, pane»
«E io dovrei abbandonare uno sciopero della fame per certa roba?»
Se ne vanno. La porta sbatte, le chiavi sferragliano nella serratura.

Mi sveglia un odore. Grasso, sale, fumo croccante. Quel che resta dello stomaco si squassa in un sommovimento tellurico.
Nella cella c’è una donna. Imponente, spettrale, avvolta in un mantello nero. Sta disponendo alcuni piatti su un tavolino. La veste svela soltanto il volto squadrato, una maschera di gesso col naso che pare spezzato a metà da un colpo d’ascia, e le mani lunghe, aliene. La bocca sorridente è una crepa. Poggia un altro piatto, si arresta, mi guarda.
«Ben alzato» dice. Scosto la coperta e faccio per scendere.
«Attento». Indica il pavimento ai miei piedi. C’è una linea bianca che taglia in due la cella.
«Vuoi venire di qua?» mi chiede mentre estrae dall’ampia manica un paio di posate.
«Puoi farlo se vuoi. Ti ho portato delle cose da mangiare. Sono molto buone, ho cucinato io».
Tiro indietro i piedi.
«Tu sei…» m’interrompe schioccando le labbra e scuotendo la testa.
«Chi sono io non ci interessa, se non per il fatto che sono un’ottima cuoca. Ma per correttezza devo dirti che se vieni da questa parte, se oltrepassi il confine, insomma, è la fine»
Scivolo lungo il letto e scendo ben distante dalla striscia di vernice.
«Allora puoi andartene», le dico.
«Non vuoi neanche sapere cosa ti ho portato?»
Resto zitto, impegnato a combattere la lingua che si dimena contro i denti. Le risponde il mio stomaco con un’eco cavernoso.
«Lo sapevo» dice, e scoperchia uno dei piatti. Al centro c’è uno spiedo dorato che termina in un tòcco rotondo, di colore bruno rossastro, lucente, attorniato da un’insalata variopinta.
«Anguilla porchettata con laccatura di salsa teriyaki e sciroppo al fieno, accompagnata da un’insalata di erbe di campo, fiori di senape e fiordaliso». Poggia il piatto sul tavolo e ne scoperchia un altro più piccolo. In un brodo scuro è adagiata una verdura violacea.
«Scalogno cotto al vapore su salsa di burro salato e semi di senape, decorato con le foglie dello scalogno stesso e marinato in aceto di lamponi». Fa un passo indietro e mi scruta.
«Mangia» dice.
«Dovrei attraversare la linea»
«Ne vale la pena»
«No»
«Però vorresti»
«No, non voglio morire»
«Ma non vuoi neanche vivere»
«Quando mi fanno uscire da qui vedrai se mangio»
Mi accorgo che sto agitando un pugno a mezz’aria. È ridicolo, sproporzionato rispetto al polso rachitico.
«E se non ti fanno uscire?». Solleva il piatto con l’anguilla e me lo porge con le mani giunte.
«Uscirò»
«E se invece no?»
Guardo la linea bianca. Lei sbatte gli occhi con aria candida. Mi volto, rientro nel letto e mi tiro le coperte addosso.
«Ti restano solo due pasti» dice. Mi addormento.

Apro gli occhi e mi ritrovo faccia a faccia col dottore. Sorride mostrando i denti piccoli e bianchi.
«Sedetevi – mi dice – devo visitarvi». Faccio per scendere dal letto, ma poi mi blocco. Guardo il pavimento. Per terra nessuna linea.
«Che avete?»
«Niente»
Mi siedo sul margine del letto. Il dottore apre la borsa ed estrae gli strumenti. Mi poggia lo stetoscopio sulla schiena, il brivido freddo mi scuote. Sento il disco metallico che cerca d’aggiustarsi sulla carne ma non trova requie. I solchi fra le costole sono troppo profondi, e quando mi misura la pressione vedo un’ombra di paura offuscargli le iridi. Teme che il bracciale, gonfiandosi, mi spezzi il braccio. Mi controlla il polso, poi si sfila lo stetoscopio, prende la solita cartellina, vi trascrive i valori e rimane per un attimo a scrutarli.
«Ha intenzione di continuare lo sciopero?»
«Mi tenete ancora qui dentro?».
Picchietta la penna sulla cartellina. «Le restano due giorni»«Ieri ha detto tre – mi fermo, mi manca il fiato − so contare»
«E se domani venisse il direttore del carcere?»
«Il direttore può parlare col giudice?»
Annuisce.
«Allora io parlerò con lui. A domani». Mi rigetto nelle coperte.

«Attento». Guardo a terra. Sono proprio sopra la linea bianca.
«Si è spostata − le dico – ho meno spazio.
«È quello che succede, col tempo che passa si riduce anche lo spazio»
«Non è vero»
Estrae un piatto e lo dispone sul tavolo.
«Qui sì, e poi voi umani avete bisogno di vedere le cose, altrimenti non capite».  Appoggia altri piatti e inizia a scoperchiarli. La cella si impregna di un odore sanguigno mentre lei mi indica le vivande.
«Toast di grani antichi con scampi, pernice e maionese al wasabi con contorno d’insalata di campo condita con vinaigrette all’anice. Tortellone di pasta al rabarbaro fatta in casa con ripieno di cervo, erbe aromatiche e formaggio di malga, su una base di fonduta di sedano rapa e mango, il tutto accompagnato da scaglie di tartufo bianco. Tartàre di manzo con quenelle di caviale accompagnata da salsa alle ostriche e osmosi di cipolle. Il contorno è un sorbetto di asparago glassato in un gel al mandarino con decorazione di noci di macadamia. Infine – scoperchia un’ultima cloche – il dolce. Una rosa di succo di geranio ghiacciato su una mousse alla liquirizia».
«È tutto per te» dice, e siede accavallando le gambe. Il mio stomaco stride, si accartoccia e aggroviglia, sento ogni fibra del corpo inondarsi di bile, bruciare. La lingua cerca di divaricare i denti, spaccarli e arrivare ai piatti da sola strappandosi dal palato. Resto fermo. Lei sospira.
«Se mangio sono morto»
«Anche se non mangi»
«C’è modo e modo di morire»
«Si, a stomaco vuoto o a stomaco pieno»
Mi scappa da ridere, ma il riso si trasforma in una tosse squassata che mi piega in due. Cado in ginocchio, un filo di bava mi scivola dalle labbra e cade in una pozza sul pavimento.
«Ti prego» dice con una voce sfibrata da una nota di dolore.
Io mi contorco sul cemento. Si alza, prende il piatto con il toast e lo poggia per terra, di fronte a me appena al di là della linea bianca. L’odore, che può attraversare il confine, mi invade le narici. «Per favore» insiste.  Sollevo la testa, allungo la mano. Posso sentire il grasso della maionese ungermi il palato e la sapidità delle carni ingrassare la gola. Lo stomaco si stira, vuole uscire e inglobare il piatto. Le dita stanno per varcare il confine. Sollevo gli occhi e vedo che mi guarda speranzosa. Come fa quel viso di cera ad avere espressioni? Fermo la mano. La tiro indietro e me la schiaccio sulla bocca. Striscio fino a sbattere contro il muro. Ben pochi passi. Lei china il capo di colpo.
Scivolo giù, mi stendo sul pavimento. Mi raggomitolo, la testa fa le braccia.
«Domani è l’ultimo pasto» dice, e sparisce.

Mi sveglia uno sferragliare. Sono steso sul letto, le coperte addosso sono un oceano, e sto affogando. Volto solo la testa. Per terra nessuna linea. La porta si apre. Entra una guardia, e dietro di lui un uomo vestito di un abito grigio sgualcito e di un tanfo misto di profumo scadente e sudore vecchio di giorni. Subito dopo entra al il dottore. L’uomo vestito di grigio, il direttore del carcere, si guarda attorno, fa una smorfia ancora più storta. Come se non sapesse dove mi tengono. Mi guarda.
«Non si alza?» mi chiede.
«Non ci riesco»
Aspetta un attimo, poi prende l’unica sedia e ci si schiaffa sopra.
«Può salvarsi in qualunque momento, anche adesso» dice.
«Non ci provi – tossisco − siete voi che mi tenete in questa trappola per grilli, voi che potete tirarmi fuori e…» mi fermo, non ho più fiato. Mi si annacqua la vista.
«Lei ha compiuto un attentato. Anzi due. Due bombe»
Roteo gli occhi per guardarlo.
«Lo so che se lo rivendica, e che non è morto nessuno né ci sono stati feriti. Ma la violenza dell’atto resta»
Gli tengo gli occhi fissi addosso.
«E allora lei si chiederà cosa sono venuto a fare − si guarda le unghie −. Sono già stato dal giudice, e abbiamo deciso che il problema è proprio questo». Infila le dita nella tasca della giacca ed estrae un foglio ripiegato in quattro. Lo spiega e se lo tiene davanti agli occhi.
«Se firma − dice porgendomelo − si risolve tutto. Torna in una cella normale, col regolare regime carcerario, e potrà tornare a ricevere lettere, telefonate, visite. Potrà accedere alla biblioteca. E troverà già apparecchiato un ottimo pranzo». Ridacchia. Una guardia lo imita. Anche tenere il foglio sollevato, far scorrere gli occhi sulle parole, sono fatiche che mi spezzano.
“Disconosco, abiuro, rinuncio, rinnego, ripudio, ritratto”. In sintesi.
Il direttore mi porge una penna, mi volto per afferrarla, ma non è più una penna.
Un piatto. Semplice, anche sbreccato sul bordo. Sono alzato, schiena al muro della cella. Mi guardo i piedi. Fra la linea bianca e il muro non c’è posto per altro. Lei mi scruta con un volto dolce.
Nel piatto c’è una fetta di pane bianco, tagliata spessa, e dai bordi cola un miscuglio acquoso di olio e pomodoro.
«È la merenda che mi dava nonna»
«D’estate»
«D’estate»
Varco oltre il confine, afferro il pane. Addento. Sale, farina, sudore a perdifiato, dita di nonna che mi arruffano i capelli, arsura di pomodoro succoso sulla lingua, soffio di vento caldo. Il braccio che cade, le nocche che graffiano il cemento. Il dottore mi si precipita a fianco. La testa mi crolla di lato e mi ci ritrovo occhi negli occhi. Ho l’ultimo fiato da usare.
«Solo due giorni – dico – aveva sbagliato i conti»
Fruscio del foglio che cade.

Questo racconto è stato scritto mentre il compagno anarchico Alfredo Cospito è giunto a 69 giorni di sciopero della fame nel carcere di Sassari, ed è inteso come una forma di solidarietà verso di lui e verso tuttə i compagnə detenuti.
Il 41-bis è tortura! Liberə tuttə!


Dario Landi nasce nel dicembre 1981 a Borgo San Lorenzo, Firenze. Inizia ad amare la lettura
all’età di cinque anni, a diciotto decide di fare lo scrittore e a trentasei comincia a scrivere (non
ricordava dove aveva messo la penna). Nel frattempo prende una laurea in scienze della formazione, un master in scrittura dei prodotti audiovisivi, lavora nel reparto fritti di un fast food e come portiere notturno, approfittando per scrivere, nelle lunghe veglie, un paio di romanzi. Uno di questi, Il Sosia, è appena stato pubblicato da Scatole Parlanti. Attualmente è, dunque: uno scrittore, un insegnante di italiano, un educatore, un compagno, una persona che somiglia a Marlon Brando.

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Grado Zero è una rivista culturale online, nata dall’incontro di menti giovani. Si occupa di cultura e contemporaneità, con particolare attenzione al mondo della letteratura e del cinema.

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