Con L’assedio della gioia (Le Lettere, 2022) Francesco Brancati fa della poesia una tecnica dell’accorgimento, il veicolo attraverso cui – nominando, descrivendo e interpretando – il soggetto riconosce che i propri spazi sono abitati anche da altre presenze. E le bussole per questa scoperta sono individuate in una lingua onnivora e un forte senso della struttura.
L’ambiguità fondamentale del libro di Brancati intride già il titolo ed è evidenziata da Massimo Gezzi, che nella densa prefazione chiede: «è un genitivo soggettivo o oggettivo, L’assedio della gioia? È la gioia che assedia uno o più soggetti – ed è la poesia che reagisce a questa evenienza – oppure è la scrittura che tenta un assedio alla gioia?»
Brancati non risolve definitivamente questa ambiguità (e anzi la fa fiorire e complica), ma a prescindere dall’interpretazione che se ne dà, il titolo introduce in una dimensione, appunto, assediata, quindi di lotta e, ancora prima, di molteplicità, pluralità. E L’assedio della gioia è infatti un libro della compresenza, dei linguaggi (come vedremo) e delle realtà; un universo in cui l’individuo si trova tra gli individui e l’umano tra presenze aliene, animali e, soprattutto, oggettuali. Tale invasione mette sotto scacco la centralità del soggetto, ma soprattutto mette sotto-scacco le capacità del soggetto di comprendere la realtà nella sua interezza.
«Adesso crede di ascoltare / il suo pensiero, invece intorno / sono due i sistemi di areazione: / le ventole sotto il corpo unibody / del portatile e poi le altre, / attraversano il corridoio, respirano l’edificio / diventano i suoni che consentono il silenzio.» Il libro si apre così, con un’illusione («crede»), e in particolare un’illusione a proposito della propria tenuta conoscitiva/esperienziale; con una marginalizzazione del soggetto («una sostanza si frappone fra le cose che tocca / e le sue mani») e un’antropomorfizzazione dell’inumano (le «ventole» che «respirano»).
Questo scambio ha però l’effetto di smontare una gerarchia, più che di annullare del tutto il soggetto (che rimane innanzitutto come – possibile – punto di vista: «Dopo, il suo sguardo annota»); fosse almeno per il fatto che la questione si gioca sulla gioia, e cioè su una direttrice emotiva, o etica, comunque umana. Ecco, perciò, che l’annotare con cui si chiude il primo testo sottolinea come l’“invasione” presente nel libro sia in dialogo con una pratica di osservazione di cui la poesia è mezzo e insieme risultato – e la poesia, soprattutto, nelle sue possibilità più varie a livello linguistico e strutturale.
Il libro di Brancati, infatti, si distingue anche per varietas stilistica e – ancora di più – lessicale. Quanto al primo aspetto, vediamo una gamma di testi diversi fra loro in termini di lunghezza, cursus, agglutinazione dei versi, respiro: si passa dai tasselli brevi di Tracce di E. a quelli molto lunghi di p. 77, da episodi monostrofici (Blues Funeral) ad altri più distesi e franti (J.A.P. dopo qualche anno, riconsiderando le ingenuità dell’altra volta), dai soli quattro versi di p. 72 ai wall of text in prosa di Il terzo motivo o Gioia dell’asfalto. Ma è dal lato del lessico che L’assedio si sbizzarrisce: posta la “compresenza” reale degli oggetti e dei soggetti, ne scaturisce una compresenza dei linguaggi. Avremo perciò elementi della cultura pop («Portishead», «Daydream nation», «Goku») ed elementi colti, bestemmie, termini entomologici («dittero»), anatomici («epiglottide»), scientifici («supersimmetria»), metalinguistici («apronominale»), ecclesiastici («bolla sancta»), letterari («senhal») e così via.
Tale campionario di linguaggi è proprio la rilevanza (se il titolo è un genitivo soggettivo) o la contromisura (se invece è un genitivo oggettivo) all’assedio – comunque ciò che inevitabilmente accompagna l’esperienza del mondo. Più volte nel libro si sottolinea l’evanescenza del reale («nebulosa di terrore del mondo», «Questi oggetti occupano uno spazio / […] rimandando a un altro spazio e a un tempo», «Tutto è bagnato da una luce che è realtà / e che insieme non può esistere davvero»), la sua sfuggevolezza, e la poesia fa da grimaldello per «Provare» (p. 91) a dare ad essa un senso, quantomeno nella “mera” direzione del nominare (cioè riconoscere) e strutturare (cioè comprendere, senza che questo spolpi la realtà in sé, tale in quanto in-comprensibile, appunto). «Un incessante sforzo di ricordare, di trattenere. Equivale a rispondere a un assedio. L’assedio della gioia.»
Ecco, la struttura: nonostante la varietà di lingua, Brancati mantiene un ordine del discorso, suddivide le sezioni per temi e ordina i testi in serie precise (Gezzi parla di «claustrofilia» ereditata da Rosselli), compone. E, cioè, cerca di dare un’architettura proprio a quell’evanescenza, che si manifesta non solo nella molteplicità delle situazioni ma anche nella continua dislocazione del punto di vista, che mutua dalla prima alla terza persona costantemente. L’assedio, insomma, è l’affacciarsi agli «squarci di realtà non complanari» (ancora Gezzi) e il coglierne insieme la minaccia e la meraviglia. Non è necessario, dunque, definire una volta per tutte se la gioia sia assediata o assediante (e a un certo punto la «gioia» è paradossalmente «impaurita», infatti); l’umano si mostra in una dialettica a stretto giro tra la necessità di accorparsi e difendere qualcosa (i suoi beni o la sua fragile integrità), e quella di sbilanciarsi a cercare. Di «Errare, come pianeti».
Antonio Francesco Perozzi
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