Racconto: Giacomo l’acrobata – Edelweiss Ripoli

Racconto Milleuno
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Nel quartiere, lo conoscono come Luca lo zoppo, anche se né si chiama Luca né è zoppo.
Ogni mattina percorre il sentiero sterrato fino al fiume, si spoglia e appende i suoi vestiti sempre allo stesso ramo e poi, carponi, entra in acqua. Una volta dentro, si lascia sommergere: scende tanto in profondità che lo specchio d’acqua torna immobile e lui è come se non fosse mai esistito; dopo qualche minuto riemerge. Alza lo sguardo verso il cielo e respira a fondo, risale il sentiero, si riveste e, nell’aria, scrive: sono morto.
Io al fiume non l’ho mai visto, lo vedo invece spesso impalato sotto a un lampione in piazza a fissare nel vuoto. E tutte le volte gli vorrei tirare un pizzicotto per farlo riprendere e dirgli che è inquietante. A me la storia sua me l’ha raccontata mia zia, anche se io non mi fido molto di quello che dice. Lei è una che per non guardare ai guai suoi si occupa di quelli degli altri e la maggior parte delle volte li modifica e ingigantisce talmente tanto che si impappina pure lei quando li racconta.
A lei, invece, la chiamano Carla la santa, anche se né si chiama Carla né è santa.
Sta nell’appartamento accanto al nostro, c’ha un letto, una sedia, un frigo scassato e una poltrona sfondata che di giorno sposta davanti la finestra che dà sul fiume e di sera davanti al televisore che tiene sopra al frigo e che, siccome era dei miei nonni, ormai non funziona più. Ma a lei sta bene così. Dice che più cose uno ha e che più quello si deve preoccupare di non perderle; e lei pensieri non ne vuole.
C’ha i peli al mento e i capelli mezzi bianchi e mezzi giallo ocra. Le arrivano al culo e, quando se li lega e io glieli tiro verso il basso per scherzare mimando con le mani una forbice, lei mi dice: «Non t’azzardare che porta male».
Per mia zia tutto porta male: pregare ad alta voce, togliere la muffa dal soffitto, cercare marito, girare il caffè da destra verso sinistra, comprare un vestito nuovo.
Che poi peggio di come sta mica lo so come potrebbe stare.
Mia zia sa rimanere solo immobile. Che se non fosse per i solchi che ha sotto gli occhi e intorno alla bocca io neppure saprei dire se il tempo su di lei ha effetti o meno.
Io la prendo in giro perché vorrei vederla diversa, cioè non diversa da com’è perché com’è mi va bene ma almeno la vorrei vedere che vive e si diverte. E allora la prendo in giro sui baffi e su quanto sia brutta. Questo è il mio modo per dirle che le voglio bene, ché a me dire ti voglio bene non me l’ha insegnato nessuno e le volte in cui ci ho provato mi è sembrato di prendere fuoco.
M’ha cresciuto e m’ha nutrito quando nessuno mi si filava, e quindi è sì mia zia, ma anche un po’ mia madre. M’ha dato fiducia, quando manco i medici dell’ospedale ci credevano che ce l’avrei fatta. E io anche se ora sono grandicello non è che me lo posso scordare quello che ha fatto.

A me, nel quartiere, mi chiamano Fulvio il secco. L’ho saputo ieri mentre ero dal fornaio. Gli è sfuggito a Luca il mago che né si chiama Luca e né è mago. Impasta il pane, c’ha le mani sempre sporche di farina e una moglie che ogni volta ha un rossetto diverso. Io avevo appena pagato e me ne stavo andando quando la moglie è uscita dal retro e ha chiesto chi fosse entrato, e lui, con tutta tranquillità, ha detto: «Fulvio il secco».
La sua voce m’è risuonata nelle orecchie come un trapano a percussione. Mi sono dovuto appoggiare al muro di fuori tanto che ci sono rimasto male. M’hanno lasciato il nome mio perché gli faccio pena.
Io faccio il finto tonto ma mica ci sono per davvero. L’ho capito che ’sti soprannomi li danno i grandi per darti una vita nuova, e ho capito pure che per avere una vita nuova uno deve averne avuto una vecchia. E ’sto pensiero mi sta divorando. Che io non sia nessuno per nessuno.
Mi sono spellicciato tutte le dita della mano libera tanto che ero nervoso. Avrei preso ’sto corpo esile che ho e lo avrei lanciato contro quel muro e altri mille. Magari mi avrebbero chiamato Attilio il testone e magari io c’avrei avuto l’occasione di raccontare chi sono davvero.
Perché, c’ho ragionato mentre mi succhiavo il sangue dalle dita, per sapere chi sei devi forse anche sapere un po’, un po’ parecchio chi non sei. Che uno pensa, beh, è logico, è una conseguenza. E invece no, diamine. Proprio per niente. Che mica o sei buono o sei cattivo, o sei bello o sei brutto, o sei intelligente o sei scemo. È che tra un’opzione e l’altra ci sto in mezzo io, e ci stanno in mezzo pure le situazioni; e ci stanno pure troppo in mezzo le altre persone.
E il fatto è che a parte mia zia io altre persone intorno non ne ho. E lo so che va avanti da sempre, non è che non me ne accorgo che in classe mi schifano tutti e a giocare a biliardino non mi ci vogliono mai, però un conto è sospettarlo un altro è rendersene conto. È peggio delle sberle che mio padre dà a mia madre. Che almeno lì c’è il livido e uno le può dire «poverina» e poi comunque continuare con la vita sua.
E lo so che c’ho colpa solo io, che a starmene sempre educato e composto alla fine ho ottenuto solo l’invisibilità.
Ma ho deciso che basta, che ora mi vedranno, e pure bene, costola per costola. E l’ho deciso ora, mentre apro la finestra della cucina di mia zia e salgo sul davanzale.
Mi chiameranno Giacomo l’acrobata e diranno che, mentre volavo, sorridevo.


Edelweiss Ripoli, nata a Roma nel 1982, è una farmacista. Vive a Rende, Cosenza.
Ha pubblicato alcuni racconti brevi e lunghi e, nel 2017, il suo primo romanzo, Libere, per l’Erudita Editore. Dal 2020 collabora con la rivista Risme. Il suo secondo romanzo, Dove siamo stati bene, è uscito per Les Flâneurs Edizioni nel 2021.

Grado Zero è una rivista culturale online, nata dall’incontro di menti giovani. Si occupa di cultura e contemporaneità, con particolare attenzione al mondo della letteratura e del cinema.

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