Svegliarsi. Un bacio, una promessa. Lavorare. Ascoltare discorsi altrui sullo sfondo della tua giornata. Rientrare a casa. Anzi, no: portar fuori il cane. Birra. Rientrare, ora. Un bacio, una promessa. Dormire.
E nel mezzo del nostro nulla, quando un lembo del fazzoletto di tempo ce lo consente, scrivere poesie.
Paterson è un film da taccuino, sì proprio quello utilizzato dal protagonista per i suoi pensieri, pena il perdersi dettagli e, chissà, il senso del film stesso. Ma ne vale la pena, certo, e comunque i più temerari possono addirittura godersi il viaggio in silenzio, senza neppure un appunto scarabocchiato.
Passo indietro: Paterson è un film di Jim Jarmusch (2016), il che lascia intendere le inquadrature e i dialoghi minimali (e di questi tempi arrivare diretti alla giugulare con le immagini e le parole, senza ricorrere a pistolotti morali, personaggi in tutina e computer grafica, è una benedizione). L’intento non è tanto quello di descrivere la vita del protagonista – quella sì, oggettivamente priva di slanci – ma di mostrarci la via per non impazzire, non del tutto almeno. Insomma: (ri)affacciarsi alla poesia.
Altro passo indietro: la trama. Paterson è il nome del protagonista interpretato da Adam Driver, uno dei feticci made in Jarmusch, un autista di pullman che vive nella omonima cittadina di Paterson. Vita ordinaria, mostrata nel film in una sua settimana qualunque (sveglia alla stessa ora, routine pressoché identica). I suoi unici slanci accadono quando, durante il suo turno di lavoro, ascolta i discorsi della gente. Oltre ai momenti in cui riesce a scrivere poesie, s’intende. Perché se durante i momenti in casa esprime il suo amore per Laura come un continuo compromesso, è durante il suo rapporto col foglio bianco che la personalità di Paterson esplode. Ma lo fa sottovoce, come le cose belle. Le immagini di Paterson mentre osserva la gente, porta a spasso il cane, livella l’eccentricità famigliare coi suoi gesti abitudinari, il tutto per graffiare fogli bianchi con le sue poesie, è un atto d’amore che Jarmusch regala a noi e al cinema.
E così accade che magari Paterson, in uno dei suoi risvegli sempre uguali, nota una scatola di fiammiferi sul tavolo: per l’economia del film la scena dura pochi secondi, ma nella testa di Paterson è un continuo arrovellarsi che lo costringerà, durante le sue tanto agognate pause, a comporre
We have plenty of matches in our house
We keep them on hand always
Currently our favourite brand
Is Ohio Blue Tip
Though we used to prefer Diamond Brand
That was before we discovered
Ohio Blue Tip matches
They are excellently packaged
Sturdy little boxes
With dark and light blue and white labels
With words lettered
In the shape of a megaphone
As if to say even louder to the world
Here is the most beautiful match in the world
It’s one-and-a-half-inch soft pine stem
Capped by a grainy dark purple head
So sober and furious and stubbornly ready
To burst into flame
Lighting, perhaps the cigarette of the woman you
love
For the first time
And it was never really the same after that
All this will give you
That is what you gave me
I become the cigarette and you the match,
Or I the match and you the cigarette
Blazing with kisses that smoulder towards
heaven
L’assenza di musiche durante il film fa sì che tutta l’attenzione sia focalizzata sui dettagli, sugli sguardi (più o meno inconsapevolmente) malinconici di Paterson, nel suo volerci trasmettere attraverso la quotidianità che la poesia – in questo caso, la vita – non risiede nel silenzio della tua camera, al riparo. O se sì, lo fa marginalmente. La vita è comunione, è sporcarsi l’anima coi fallimenti, è osservare dal di dentro, è strapparsi le scaglie durante la nostra perpetua muta per guardarsele controluce cercando di capire cosa è rimasto del nostro io di ieri, se oggi siamo più o meno ambiziosi, se le prossime scaglie saranno ancor più coriacee o meno.
Ma la quotidianità è qualcosa destinato a sorprendere: in Paterson questo accade quando Marvin, il cane che Paterson sopporta solo per compiacere Laura, distrugge il blocchetto delle poesie.
I pensieri di Paterson scompaiono.
Perde ogni cosa.
Paterson è infine libero, e al di là dell’iniziale disperazione per quei suoi pensieri destinati all’oblio, si rende consapevole – tra un incontro con personaggi bizzarri tanto cari a Jarmusch – di quanto la vera poesia risieda in un linguaggio che da sempre cerchiamo di raggiungere: quello che ci attende al di là del linguaggio stesso, al di là delle parole.
O come canterebbero i Baustelle:
Non vale un cazzo che cosa leggi
o quanti libri pubblicherai.
Dei tuoi pensieri puri
Se passeggi sopra queste macerie
che te ne fai?
Luca Pegoraro
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