Chi ha fatto della scrittura il suo mestiere sa cose sulla lingua italiana che altri ignorano.
Nulla di eclatante – per carità! – ma ci sono piccole regole che si dimenticano dopo gli anni di scuola o che si imparano solo con il tempo.
Vediamo alcune fra le più piccole e intuitive. Rinfrescare la memoria può solo far bene.
L’accento è un segno diacritico – cioè supplementare – che modifica la pronuncia della parola o della singola vocale su cui è posto. E questo lo sappiamo tutti.
Ciò che è meno noto è l’utilizzo dei due principali accenti della lingua italiana: l’accento grave e quello acuto.
In italiano le vocali «e» e «o» possono essere pronunciate aperte o chiuse. L’accento ci fornisce questa indicazione.
L’accento acuto indica una pronuncia chiusa. Per esempio, i composti di “che”: perché, poiché, alcunché, e ancora né, sé, o in alcuni passati remoti di seconda coniugazione: abbatté, poté. Nel caso della «o», in italiano non abbiamo parole terminanti con l’accento acuto.
L’accento grave indica invece una pronuncia aperta. Parole come: è, caffè, tè. Nel caso della «o», l’accento è sempre grave in finale di parola: vorrò, dirò, però.
Le regole sulla d eufonica in lingua italiana sono diventate abbastanza note sul web. Ma è sempre bene ricordarle.
La d eufonica è un elemento fonico che serve a impedire lo iato (cioè la successione di due vocali), in particolare in ed e ad.
Oggi, è accettata solo per dividere vocali uguali. Se scriviamo “Marco ed Emilia” va bene. Se invece scriviamo “Marco ed Anna” no.
Aggiungeremo quindi la d eufonica alle «a» e alle «e» solo quando sono seguite – rispettivamente – da parole che cominciano per «a» ed «e». Ci sono due eccezioni: le forme cristallizzate come ad esempio richiedono la d eufonica. Inoltre quando la parola che segue comincia per ad o ed la d eufonica cade. Non avremo, quindi, “Agenti ed editori” ma “Agenti e editori“.
La forma od è oggi deprecata.
Nella lingua italiana, le virgolette sono di tre tipi. I «caporali» – o virgolette basse – vengono usati solitamente per citare titoli o frasi altrui, soprattutto in ambito giornalistico. In editoria sono utilizzati per i dialoghi: «Ciao» disse Marco.
Le virgolette “alte” servono – come le precedenti – per citare testo altrui o per indicare un titolo. Dipende, in questo caso, dalle norme redazionali in vigore per quello specifico testo. Ma servono anche per indicare una modificazione di senso nell’utilizzo della parola. Non è un caso che si dica, nel parlato, “fra virgolette”.
Anche le virgolette alte possono essere utilizzate per i dialoghi: “Ciao” disse Marco.
Infine, gli ‘apici’ vengono utilizzati per specificare il significato di una parola in altra lingua o, soprattutto, al posto delle virgolette alte quando vi si trovano all’interno: “Ieri mi ha detto ‘ciao, come va?’, e io non ho saputo rispondere” disse Marco.
Non è il testo di una canzone pop. Molti fanno confusione fra accenti e apostrofi, e cercheremo di fare un po’ di chiarezza.
1) Di. Esistono tre possibilità accettate nella lingua italiana.
Di è una preposizione semplice: Lo zaino di Marco.
Dì è un sostantivo che indica la parte di luce del giorno: Il dì e la notte.
Di’ è la forma tronca di “dici”, seconda persona singolare, imperativo: Di’ che ne pensi!
2) Fa. Sono solo due le forme accettate.
Fa è la terza persona del verbo fare, indicativo presente: Marco fa i compiti. È anche la quarta nota e viene utilizzato in alcune locuzioni avverbiali: Quattro giorni fa.
Fa’ è la forma tronca di “fai”, seconda persona singolare, imperativo: Fa’ come dico!
3) Da. Esistono tre forme in italiano.
Da è una preposizione semplice: Vengo da Napoli.
Dà è la terza persona del verbo dare, indicativo presente: Marco dà la penna a Luigi.
Da’ è la forma tronca di “dai”, seconda persona singolare, imperativo: Da’ da mangiare agli animali!
4) Si. Ci sono due forme accettate.
Si è un pronome riflessivo di terza persona: Marco si veste. È anche la settima nota.
Sì è un avverbio che indica affermazione: Sì, hai ragione.
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Maurizio Vicedomini
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