Racconto: Il rinoceronte – Maurizio Vicedomini

Il racconto Il rinoceronte è tratto dalla raccolta Ogni orizzonte della notte di Maurizio Vicedomini (Augh!, 2017). Il rinoceronte di cui parla è morto oggi. Scegliamo di condividere questo racconto per ricordarlo, e per ricordare tante altre cose.


 

 

A ciò che abbiamo perso


Siamo in cinque, tutti neri. Lui, invece, è bianco solo di nome. Perché, diciamolo pure: l’hanno chiamato così per distinguerlo da quello nero. Non è una questione di razzismo, credo. Però è la prima cosa che mi è passata per la testa da quando sono stato assegnato qui, e allora tanto valeva metterla in chiaro.

Ecco, anche “mettere in chiaro” potrebbe essere presa per una cosa razzista, perché i bianchi sono chiari – anche i gialli, certo – mentre i neri sono scuri. Allora “mettere in chiaro” ha valore positivo, significa rivelare, rendere noto, mostrare, ed ecco che l’uomo bianco ha valore positivo. È un sillogismo, o qualcosa del genere. E se il rinoceronte bianco l’hanno chiamato così solo per differenziarlo dal nero, allora è tutto un gioco di contrari. Se l’uomo bianco è positivo, l’uomo nero è negativo.

E ora che ci penso, l’uomo nero è quello che spaventa e rapisce i bambini nelle storie. Mica le mammine europee dicono “arriva l’uomo giallo” o li mettono in guardia dagli ariani, no. Eppure gli ariani di guai ne hanno fatti nell’ultimo secolo. Noi al limite siamo ricordati per una frasetta bella e sognante, quel I have a dream che è tutto un programma.

Comunque, non divaghiamo. Ci sono queste cose che ho per la testa, e non so da quale cominciare. Partiamo da lui.

È un rinoceronte bianco, e questo l’ho già detto. Aggiungo che è un rinoceronte bianco settentrionale. Se volete sapere qual è la differenza con quello meridionale (ancora tutto un gioco di contrari) andate su Wikipedia. Io ho fatto così. Ma il punto importante è che questo è l’ultimo rinoceronte bianco settentrionale maschio. Eccola la bomba atomica che ci ha portati qua, me e gli altri quattro ragazzi.

Se noi siamo qui, è perché ci sono altri come noi, diversi da noi, ma in fondo proprio identici, che gli vorrebbero fare la pelle. O meglio, il corno. E questo qui il corno nemmeno ce l’ha. Gliel’hanno tolto sperando che quei figli di cani della prateria dei bracconieri lo lascino in pace. E qui già comincia a venir meno la mia teoria dei contrari. Perché – ehi – io sono qui a proteggerlo e gli altri lo vogliono accoppare – o “accornare” – ma siamo uomini neri tutti quanti. Anche loro.

Ora, siamo onesti. Qualche bracconiere bianco io lo conosco. Uno si chiama Misha, che sarebbe Michael, ma fa più figo. Non vorrei passare io per quello razzista, che di teorie sul razzismo di ritorno ne hanno fatte a pioggia, però noi qui siamo cinque ragazzi, tutti neri. Loro qualche bianco ce l’hanno. Questo le mammine non lo raccontano.

Io lo so che oggi il tema del razzismo è scemato un po’, e non voglio riportarlo io sulle prime pagine. Lo so che oggi i gay sono i nuovi neri, le donne sono i nuovi neri, ma io sono qui per il rinoceronte, e non ci sono donne. E se qualcuno di quei ragazzi è gay, io non voglio saperlo.

Neppure Misha è donna, e non lo so se è gay. Ecco, facciamo finta che non lo sia. Ci siamo io e lui, bianco e nero, io qua a difendere il rinoceronte non-nero, lui che vuole farlo fuori. E io lo capisco. Un corno di rinoceronte vale più dell’oro al mercato nero. Uno ci mette a posto la famiglia. Maundu, il ragazzo nero dall’altra parte del rinoceronte che sta con il fucile sempre troppo alto, non li capisce, invece. Lui la carne non la mangia, io sì. Il problema non è ammazzare gli animali, il problema è non avere limite.

Vedo qualcosa là, dove la vista passa da sfocata a forme più geometricamente riconoscibili. Mi sembra di aver visto qualcosa, almeno. Alzo il fucile, lo imbraccio per bene, chino l’occhio, punto. Non riesco a capire se quello che vedo è bianco o nero. Maundu si sta spaventando, lo percepisco con qualche sesto senso, un qualcosa di sovrannaturale che ho dalla nascita, o forse dal fatto che mi sta urlando nelle orecchie “Qual è il problema?” da almeno un minuto e mezzo. È un disco rotto, non capisce che forse – se non gli rispondo – un motivo c’è. E il motivo è che non lo so, qual è il problema. Non so cosa sto vedendo. Però continuo a tenere il fucile puntato.

C’è quel vecchio gioco: se ti sembra di vedere qualcosa mentre sei a caccia, ma non sai se è un animale o una persona, spari o non spari? Ecco, io sono il tipo da premere il grilletto prima ancora che la voce nella mia testa si sia posta il problema. Maundu invece no, lui non sparerebbe. Se è una persona io vado nei guai, ma se è un leone Maundu finisce sbranato. Voglio dire, meglio la galera che il cimitero. Ecco. Io e Maundu la pensiamo in maniera diametralmente opposta. Eppure siamo entrambi neri. Questa cosa mi sta sfuggendo di mano.

Guardo ancora. Poi, con lentezza esasperante (ma lo faccio solo per tenere Maundu ancora un po’ sulle spine) abbasso il fucile. Non era niente, gli dico. Non era né bianco, né nero. Siamo soli su questa terra. Solo noi e il rinoceronte, e la sua vita dipende dalla nostra. È sempre dipesa da noi, solo che finora non l’avevamo mai saputo.

*

Lo guardo, e più lo guardo più mi sembra vecchio. Ha quarant’anni, dicono, l’hanno chiamato Sudan. Prima ce n’era un altro di maschio, ma se n’è andato nel paradiso dei rinoceronti. E ora è tutto sulle spalle di Sudan, con la sua pelle grigia e le rughe scavate, solchi profondi in quell’intonaco coriaceo che si ritrova.

Ecco, lui è lì, da solo, con noi a proteggerlo. E non si è accorto di niente. Si è accorto della nostra presenza, naturalmente. Lo sa bene questo. Vede bellimbusti neri con l’artiglieria, ma non capisce che gli altri vogliono farlo fuori. Proprio lui, l’ultima speranza per la sua specie. Sembra uno di quei film di fantascienza di serie z, il prescelto e tutto il resto. Lì finisce tutto bene. Qua non lo so mica se finirà bene. È vecchio, Sudan.

Ecco. Non riesco a pensarci. Ci sono quelli che distruggono bam patrimoni dell’umanità, e lì già uno si incazza. Prendono a martellate una statua che avrà tremila anni, buttano giù un tempio con le ruspe. Ci stai male. È l’equivalente planetario di quando ti accorgi di aver perso le foto di quando eri piccolo, sempre sorridente con i tuoi genitori che adesso sono morti. Però Sudan è l’ultimo. Dopo di lui non ce ne saranno altri. Erano tanti, più delle rughe scavate nella corazza di quel rinoceronte, che chissà cosa starà pensando. Forse al cibo, forse che è troppo vecchio per queste cose, che non ha voglia di accoppiarsi, che questi ragazzi neri gli stanno troppo vicini, che “porca puttana, che fine ha fatto il mio corno?”. Io non lo so cosa penserei se fossi nella sua situazione – e non fossi un rinoceronte, certo. Forse mi sentirei uno di quelli che è sopravvissuto al campo di concentramento della vita, ma che resistere alla fine non è servito a niente, che “fanculo, mi avete ammazzato voi, ci avete ammazzato voi”. Si gira, mi fissa nelle palle degli occhi. E allora certo, uno si incazza per i templi e le statue, ma più lo guardo, e più capisco che è tutta un’altra cosa, che la vita, proprio la vita, è un’altra cosa.

Maurizio Vicedomini

 

Maurizio Vicedomini è capoeditor per la Marotta&Cafiero editori. Ha acquistato diritti di pubblicazione in tutto il mondo ed è pioniere nello sviluppo di nuove forme di impaginazione libraria in Italia. Ha fondato la rivista culturale Grado Zero, sulle cui pagine sono apparsi racconti di grandi autori italiani e internazionali. È autore di libri di narrativa e critica letteraria. Collabora con la Scugnizzeria, la prima libreria di Scampia.

Lascia un commento

Torna su