È un’autrice che adoro. È una donna brillante, frizzante, carismatica.
Tanti anni fa era solo una linea nella bibliografia del programma di un esame da preparare all’università. Poi l’ho incontrata, conosciuta. Quel nome sarebbe diventato una donna in carne e ossa davanti a me, una donna che mi parla, mi guarda, che si tira su le maniche del maglione troppo largo. Che avrebbe scritto una dedica commovente su quel libro che ho consumato, ai tempi dell’università.
Le cose della vita.
Ha una voce un po’ stridula che le serve a parlare quella lingua bellissima, lo spagnolo, che sa dire certe cose meglio delle altre lingue.
Dichiara di avere delle ossessioni: come tutti gli scrittori, lei dice. Lei dice che tutti gli scrittori hanno delle ossessioni e che scrivono (consciamente o inconsciamente) sempre delle stesse cose, di quelle ossessioni. Così dichiara candidamente di scrivere sempre delle stesse cose: le sue ossessioni ritornano e riemergono in tutti i suoi libri, che lei lo voglia o no. Ed è vero. In modo diverso, esplicite o velate, osservate da angolature diverse, ma sono sempre lì.
La loca de la casa è un libro del 2003, pubblicato in Italia (da Frassinelli e Salani) con il titolo La pazza di casa e con una postfazione di Mario Vargas Llosa. Per intenderci, è quello della dedica commovente. La quarta di copertina dice che è l’opera più personale di Rosa Montero. In realtà lo era fino alla pubblicazione nel 2013 de La ridícula idea de no volver a verte che, per dichiarazione dell’autrice stessa, è il libro che contiene i passaggi più prossimi all’autobiografia di tutta la sua produzione: ma i lettori italiani (almeno per il momento), purtroppo, non possono saperlo.
La pazza di casa è un testo di difficile classificazione: romanzo, saggio, autobiografia. È un libro dove si ritrovano molti dei temi cari all’autrice: la bellezza della vita, del sentirsi vivo e del vibrare attraverso il corpo, l’angoscia del pensiero della morte propria e altrui, la follia, la memoria, e soprattutto la creazione letteraria e la scrittura.
È un libro dove si mescolano aneddoti su personaggi conosciuti, artisti e ricordi personali (al netto del fatto che, dice l’autrice, anche la memoria è ingannevole e i ricordi sono la rielaborazione che facciamo del nostro passato e non la sua restituzione esatta; ed è poi su questa rielaborazione, su questa deformazione del reale che costruiamo la nostra identità). Il lettore è disorientato ma divertito, per esempio, dal racconto che Rosa fa di un incontro torrido con M., un attore americano di passaggio a Madrid poco prima della morte di Franco, quando lei aveva ventitré anni e stava vivendo la sua epoca hippy: l’episodio viene raccontato per tre volte nel corso del libro, ma ogni volta in modo diverso e con esiti diversi.
Rosa Montero, insomma, cammina su quella linea sottile che separa la sensatezza dalla follia, la verità dall’invenzione, la realtà dal desiderio, e qualche volta perde l’equilibrio. E di questo perdere l’equilibrio, di questi passi da un lato e dall’altro del confine, ne fa un mestiere.
Per lei scrivere significa aver la fortuna di poter vivere e inventare altre vite oltre alla propria. Per lei essere romanziere significa convivere felicemente con la pazza di casa (che, non l’avevamo ancora detto, è l’immaginazione, secondo le parole di Santa Teresa di Gesù). Essere romanziere significa, per lei, non aver paura di visitare tutti i mondi possibili e anche alcuni mondi impossibili. I romanzieri sono esseri più dissociati degli altri e più consapevoli della loro dissociazione e il romanzo è, per lei, un’autorizzazione alla schizofrenia.
Questo testo, insomma, è un viaggio appassionante nei meandri della fantasia di una scrittrice che, certo, fa qui una dichiarazione di poetica, ma soprattutto dimostra cosa significhi in concreto vivere questa poetica nel suo essere donna e scrittrice. L’immaginazione ha, per lei, capacità salvifica perché compensa e allarga i limiti del reale.
Non sono parole al vento: è bello ma facile dire che si scrive contro la morte, che scrivere ti salva la vita, che scrivere è lo sforzo di trascendere la miseria umana. Ma lei non si limita a dirlo: lo dice e poi ci dà le prove di cosa questo significhi veramente.
Qui, come altrove, Montero conferisce alle parole il potere di creare bellezza, di resistere al dolore, alla perdita, alla morte.
Citando decine di autori e di testi, e poi parlando in prima persona, affronta temi come il processo di scrittura, la creazione dei personaggi, il rapporto con il lettore. Ci spiega come da un rumore di fondo, da un ronzio ininterrotto nella testa nasce una storia; e come mai, per esempio, nei suoi libri c’è sempre un nano (o succedanei dei nani): il nano, dice con la consueta ironia, è un essere che sta al confine, a metà strada fra l’infanzia e l’età adulta, in un’indeterminatezza temporale che per lei diventa simbolica.
Le cose della vita, dicevamo. Le cose belle della vita: fra queste ci sono alcuni dei libri di Rosa Montero.
Manuela Corigliano
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