Categorie: CinemaCultura

Le donne e l’horror: viaggio nell’horror italiano, pt. 7

Settima puntata della nostra inchiesta sul cinema di genere e horror italiano contemporaneo


«Credo che le storie di genere rappresentino un modo estremamente efficace di ritrarre la realtà. Spaventare, stupire alterando le fattezze del nostro mondo, portare i conflitti sotto il sole impagabile di un duello, sono strumenti narrativi di una forza inimmaginabile. Sono convinta che in futuro, la spasmodica ricerca di storie create per un pubblico che esige un intrattenimento non banale, riservi sempre più spazio al genere come strumento di analisi e racconto della realtà».

Iniziamo così, con le parole di una sceneggiatrice, Silvia Ebreul[1], per introdurre a un articolo in cui le donne sono protagoniste. Esiste una particolare connessione tra l’horror e le donne, che fa del primo un genere intensamente femminile, sotto molteplici punti di vista. A cominciare dal fatto che alle donne l’horror piace moltissimo. Checché se ne possa dire, ci verrebbe da aggiungere. La convinzione che l’horror – e con esso un po’ tutto il cinema di genere – non sia roba da donne è un luogo comune, forse anche troppo radicato nell’immaginario collettivo. C’è un pregiudizio che vuole le donne rappresentate sempre dalla metafora del gentil sesso, naturalmente respingenti verso le emozioni forti come la paura, dedite esclusivamente all’intrattenimento leggero e alle narrazioni amorose. E invece, sarebbe ora di cancellarlo con un bel colpo di spugna.

Le donne hanno sempre realizzato horror di prim’ordine (ricordate Mary Shelley e Shirley Jackson?), e al contempo si sono dimostrate ricettive verso un genere che le riguarda molto da vicino. Come ha già notato Alison Peirse nel suo Women Make Horror, costituiscono un target privilegiato per questo tipo di racconti. Basta farsi un giro sul web per rendersene conto, e constatare come nelle community dedicate una grossa percentuale degli utenti siano donne. Ci sono anche donne che realizzano film horror, in qualità di produttrici, di sceneggiatrici o di registe, e donne che vi lavorano in altra guisa, per esempio in veste di critica cinematografica o nell’organizzazione di festival di settore.

Queste ultime due circostanze sono perfettamente testimoniate da Silvia Moras[2], che abbiamo già avuto modo di incontrare su queste pagine nelle scorse settimane. «L’horror è il genere che può rappresentare meglio di altri l’universo femminile – pensiamo alla maternità e al rapporto coi figli, ma anche al corpo e alle sue fragilità. L’horror riesce a intercettare benissimo i timori delle donne».

Non è un caso, infatti, che il cinema dell’orrore abbia portato più volte sullo schermo i terrori di un mondo dominato dagli uomini, del patriarcato, ma anche delle peculiarità legate al corpo femminile, dalle mestruazioni alla gravidanza. La filmografia di David Cronenberg è esemplare in tal senso, fornendoci più di un titolo efficace nella rappresentazione del mostruoso femminile, come Il demone sotto la pelle e Brood – La covata malefica.

Brood – La covata malefica di David Cronenberg (1979)

L’opera di Cronenberg è stata determinante nella definizione del body horror, che il regista canadese ha declinato sovente proprio al femminile, ma potremmo citare anche Carrie e Rosemary’s Baby –tutti film, però, diretti da uomini, mentre è chiaro che la presenza di un uomo o di una donna dietro la macchina da presa ribalti la prospettiva. Un uomo che affronti il tema della gravidanza e del parto, infatti, sta parlando di qualcosa che per sua natura non sperimenterà mai sulla propria pelle, e in quanto tale può esserne spaventato come si può avere paura dell’intangibile e dell’ignoto; ma nelle mani di una donna quella materia diventa il racconto di un’esperienza vicina, personale, che può tradursi in accettazione, in rassegnazione o in un rifiuto – perché, in fondo, chi ha detto che una donna non possa avere paura della gravidanza o desiderare di non aver mai avuto il ciclo mestruale?

È un fatto insolito, pertanto, che ci siano ancora poche donne a capo della gestione e dell’organizzazione di festival e manifestazioni di settore, e ancor meno alla regia, quando si tratta di film horror. Non molto insolito, in realtà, se consideriamo lo status del cinema in generale (e a un livello ancora più ampio dell’intera società) e di cui la scarsa componente femminile in ruoli di rilievo è indicativa.

«Nonostante le cose si stiano muovendo a ritmi molto sostenuti, e negli ultimi anni alle donne sia sicuramente più facile avere accesso alla regia, il panorama resta comunque sbilanciato. Il #MeToo e l’avvento delle piattaforme, che hanno reso urgente la presenza di contenuti e l’obbligo di muoversi verso le pari opportunità, stanno agendo prepotentemente sulla società, e questo è solo un bene. Forse tra un paio di generazioni, quando mi auguro ci sarà una vera parità di opportunità, sarà più facile trovare donne che si cimentino naturalmente con il genere». È quel che ci ha detto la regista Milena Cocozza a questo proposito. «La motivazione va cercata nella società fortemente patriarcale, che consente ancora a un uomo di parlare di qualsiasi argomento, e a una donna di affrontare solo “cose da donna”» aggiunge, riportandoci quindi a quell’inossidabile pregiudizio con cui abbiamo aperto questo discorso.

Letto N. 6 di Milena Cocozza (2020)

Milena Cocozza[3] ha esordito alla regia nel cinema con il lungometraggio Letto N.6, in cui Carolina Crescentini interpreta una dottoressa che svolge il turno di notte in una clinica pediatrica di gestione ecclesiastica. Tuttavia, per ottenere l’incarico ha omesso di dire che è incinta; ma quello che lei stessa ignora è che la dottoressa che l’ha preceduta si è suicidata proprio durante l’orario di lavoro. Insomma, gli elementi per un horror al femminile ci sono tutti: dentro c’è la maternità, la gravidanza e le ripercussioni che questa comporta sul piano professionale, ma anche «il rapporto che le donne stesse hanno con questo fenomeno che rappresenta forse il massimo della funzione naturale, e al contempo cela in sé un aspetto profondamente disturbante. La maternità è legata ad un senso di responsabilità supremo, a un riferimento diretto delle proprie azioni sul futuro delle creature generate. E sì, la gravidanza in sé è un fenomeno che richiama l’orrore, qualcosa di sconosciuto che prende forma dentro di te, è sublime e terribile al tempo stesso, di sicuro richiama una sensazione di paura, della trasformazione e della responsabilità».

C’è poi un’altra italiana dietro la macchina da presa il cui percorso artistico, recentissimo, è piuttosto interessante: stiamo parlando di Mitzi Peirone, italiana trasferitasi a New York a diciannove anni, che ha intrapreso la sua carriera da regista proprio negli States. Nel 2018 Peirone ha realizzato il suo primo lungometraggio, Chimera, presentato al Tribeca Film Festival e accolto positivamente dalla critica. Il film mescola horror e thriller psicologico, in un’ambientazione claustrofobica e a tematica dominante femminile: non a caso, il cast è composto quasi da sole donne, in un intreccio imperniato attorno al tema della maternità e dell’impossibilità di avere figli.

Chimera di Mitzi Peirone (2018)

Peirone – di cui attendiamo il prossimo lavoro, dal titolo Saint Clare – si aggiunge all’elenco sempre più nutrito di registe che, anche in Italia, si cimentano nel linguaggio dei generi, e con risultati del tutto promettenti. Eppure, nonostante il progressivo aumento, non c’è dubbio che siano ancora in minoranza, come giustamente sostiene Silvia Ebreul, che negli ultimi anni ha contribuito a firmare serie tv come Il cacciatore e That Dirty Black Bag – a proposito di quest’ultimo, ci ha fornito un punto di vista davvero interessante: «Ritengo che il cinema e la tv di genere possano essere strumenti meravigliosi per narrare qualsiasi personaggio. Sia maschile che femminile. Ma ritengo anche non sia corretto chiedere al cinema di genere di risolvere il perpetuo dibattere su come raccontare il mondo femminile e quello maschile. In That Dirty Black Bag le donne si comportano coerentemente con le regole del mondo in cui vivono. Forzare la mano su aspetti che le avrebbero rese più amabili o accettabili al pubblico le avrebbe rese meno vere. E a noi sarebbe sembrato di tradirle. Quindi non è il “genere filmico” a definirle ma la coerenza dei loro pensieri e dei loro desideri. Ritengo quindi che il ritratto di un personaggio femminile possa essere reso più vero semplicemente dalla voglia di indagare il mondo femminile con uno sguardo diverso. Indipendentemente dal genere». Avrà ragione Ebreul? Probabile. E forse ci sarà bisogno di ancora più donne dentro e dietro i film per scoprirlo.

Andrea Vitale


[1] Silvia Ebreul è una sceneggiatrice, che ha contribuito a scrivere le serie tv That Dirty Black Bag e Il cacciatore. Quest’ultima è attualmente disponibile su RaiPlay, mentre la prima è visibile su Paramount+.

[2] Silvia Moras, docente e storica del cinema, ha lavorato nell’ambito di numerosi festival ed eventi cinematografici, è collezionista di locandine e materiali vari legati al cinema di genere italiano ed è consulente per il Museo Permanente del PAFF! di Pordenone.

[3] Milena Cocozza ha diretto la serie tv I delitti del BarLume e la seconda stagione di Mare Fuori. Il suo esordio al cinema è stato proprio con Letto N.6.

Andrea Vitale

Andrea Vitale nasce a Napoli nel 1990. Frequenta il liceo classico A. Genovesi, e nel 2016 si laurea in Filologia moderna alla Federico II. Ama la musica e la nobile arte dei telefilm, ma il cinema è la sua vera passione. Qualunque cosa verrà in futuro, spera ci sia un film di mezzo. Magari, in giro per il mondo. Attualmente frequenta un Master in Cinema e Televisione.

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