Tra le pagine di questa rivista abbiamo già avuto modo di raccontarvi il ritorno nelle librerie di Carlo Coccioli, scrittore ingiustamente tralasciato dal canone della letteratura italiana contemporanea. A questo giro, la casa editrice Lindau ci propone per la collana Piccolo Karma Le case del lago, un romanzo in parte atipico per la produzione cocciolana in quanto si tratta di un giallo. Ma lo è veramente? Perché proprio come dice la battuta che apre il romanzo: «Nulla è reale, fuorché…».
«Qui e ora, noi due, dove siamo? In allucinazione o in… realtà reale?».
Nel 1953 Carlo Coccioli abbandona l’Europa e si trasferisce in Messico. In questi anni scrive in francese e in spagnolo: Le case del lago è il suo ritorno alla lingua italiana, creando un romanzo che di italiano, in realtà, ha ben poco. L’ambientazione è proprio quella del Messico e, se si vuole fare un tentativo di sintesi della trama, si potrebbe dire quanto segue: nelle vicinanze di un lago ci sono tre abitazioni, chiamate la Senza Nome, la Pagoda e il Purgatorio. Una di queste case è abitata dal narratore e dal suo compagno Damaso, il quale è appena guarito da una sorte di malattia che si è presentata sotto forma di possessione. Le altre case, invece, sono abitate dai membri della famiglia King, tra cui il padre Joseph, il giovane Tadeusz (probabile richiamo al Tadzio manniano, e capirete il perché) e Lia Abramova. Questi vivono in una sorta di comunità hippie, tra riti e strane preghiere. Un giorno scompare uno degli ospiti della famiglia, una sorta di santone/profeta/guru dalla forte libido sessuale che chiamano Monsieur Cavalcantì (alla francese, con l’accento finale sulla i), e successivamente viene trovato morto nei pressi del lago.
«Mi narra l’ultimo capitolo di un romanzo giallo?».
«Le ho già detto che se si trattasse di un romanzo il suo colore sarebbe rosso».
«Rosso come la concupiscenza?».
«Rosso come le fiamme».
«Bene, prosegua, non aumenti l’impazienza dell’ascoltatore!».
All’inizio di questo articolo ci si poneva la domanda se questo libro possa considerarsi effettivamente un giallo: proprio questa considerazione dà il via al gioco letterario di Coccioli. Difatti, Le case del lago ha ben poco del genere letterario “giallo”: non c’è quella tensione narrativa tipica del giallo, lo sviluppo di un’indagine o la ricerca di indizi. C’è solo un accenno di tutto ciò, anche perché la linea “gialla” del romanzo compare solo a metà («complimenti! Il suo racconto si sta trasformando in un romanzo giallo… o è lei che lo riduce a tale»). L’aspetto più interessante dell’opera è, in realtà, il modo in cui tutta la storia viene raccontata, ovvero tramite un dialogo. Il narratore, che rimane anonimo così come il suo interlocutore («chi io sia, lei lo sa, lei lo sa!, e lei sa che io non giudico nessuno»), il quale risponde sempre con frasi brevi e incalzanti, espone tutta la storia in un dialogo, riprendendo quasi l’antica tradizione del dialogo filosofico. Quest’ultimo non è un aggettivo usato per caso (come direbbe lo stesso Coccioli), in quanto la prima parte del romanzo è costituita da una serie di digressioni in materia di filosofia orientale (morte, reincarnazione, rinascita, religioni e quant’altro) mentre, uno dopo l’altro, ci vengono presentati i personaggi e le storie di queste case del lago. Uno di loro, in particolare, attira l’attenzione del narratore, ovvero Tadeusz: si crede che lui sia la reincarnazione di uno scrittore polacco (o del male stesso, dato che lo scrittore era «un attivo provveditore di carne umana per i forni di Auschwitz e simili») che porta il suo stesso nome e sono uniti dal fatto che il giovane è venuto al mondo proprio nel momento in cui lui moriva. Il ragazzo si trova spesso al centro dei suoi discorsi e protagonista di conturbanti scene (come quando viene sorpreso a masturbarsi compiendo una sorta di rituale).
Altra chiave di lettura fondamentale del testo è sicuramente la questione “postmoderna”, ovvero: il livello testuale del romanzo, che in realtà potrebbe considerarsi anche un lungo racconto data l’assenza di divisioni in capitoli, sfocia continuamente nel metatestuale, grazie alle continue allusioni al genere sia da parte dell’interlocutore sia del narratore. Lui stesso è ben consapevole del suo essere narratore e allude di continuo alla messa in scena letteraria:
«Se scrivessi un libro, sarebbe opportuno, qui, terminare il capitolo e voltare pagina. Ma non vi sono capitoli nel mio racconto!». «Un racconto non diviso opportunamente in capitoli somiglia a una porta stretta: vi si passa a stento».
Coccioli invita il lettore a leggere il testo attivamente su due livelli: il primo riguarda la fabula del narratore e tutte le sue divagazioni; il secondo, invece, concerne il rapporto tra il narratore e il suo interlocutore: se da un lato dice che «ciò che le racconto è accaduto meno di un mese fa», in realtà il tutto, che registra nelle ultime pagine un alzamento di stile (come nel poetico paragrafo del “giuoco” di Tadeusz) viene elevato a un’altra dimensione, e allora forse capiamo di essere in una sorta di limbo, irreale come la realtà stessa, poiché «nulla è reale, fuorche…».
Giovanni Palilla
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