Cratere – Beatrice Morra

Il cratere era grande come uno stadio e sul fondo giacevano migliaia di pesci morti. Il puzzo era terrificante e raggiunse il paese prima della notizia. Il guardiano del Parco si precipitò lì dando gas alla sua auto sgangherata; quando arrivò sul ciglio sgranò gli occhi come se avesse trovato un cadavere di uomo. Come faremo, adesso? Come faremo?, pensò. Aveva trovato un cadavere di lago.

Riesco a tenere disteso il filo delle bugie. Potrei stenderci le lenzuola di mia mamma, quelle con le rose. Potrei saltarci su con un balzo da gatto, percorrerlo avanti e indietro come un funambolo. Il filo delle bugie è teso, metallico, acceca sotto il sole del terrazzo. Vibrerebbe appena come la corda di una chitarra, se passasse il vento.
Quando provo ad essere sincera il filo si ingarbuglia. Non è più teso e luccicante, non danzano ai suoi lati le rose bianche delle lenzuola, non lo percorro sfacciata in equilibrio sul terrazzo. Smetto di camminare. Rimango pensierosa a guardare le macchine attraversare il mio riflesso sulle vetrine, e contemplo il mio ultimo pensiero.  Se inizio a parlare, mi zittisco. Provo a ricominciare, a ripetermi ciò che ha detto la mia voce. Se inizio a scrivere, mi fermo. Esito con la punta della penna sopra al foglio e con un tratto nervoso cancello l’ultima parola, oppure canc canc canc, preme il pollice sullo schermo del telefono. Riscrivo. So che dall’altra parte possono leggere in alto, sotto il mio nome: sta scrivendo… e improvvisamente più nulla. Una volta mi è arrivato uno schiaffo così forte da farmi volare gli occhiali. Le cose persero i loro contorni, mi trovai fuori fuoco e gli oggetti prima familiari, erano, adesso, delle macchie di colore. Così mi sento quando provo a essere sincera e il filo dei pensieri mi si arruffa come una chioma capricciosa.
Come fai a dire tutto in maniera così chiara, mi ha detto una volta un’amica. L’ho guardata con stupore: in maniera chiara so dire soltanto le bugie, ho pensato. Quella notte ho sognato di camminare sul fondale di un mare dalle correnti calde. I capelli mi fluttuavano intorno al viso e il rumore metallico delle barche, chilometri e chilometri sopra di me, arrivava fin laggiù. Seguivo il solco scavato nella sabbia da qualcuno che era passato di lì e si era nascosto dietro una grande roccia piena di anemoni. Mi svegliai senza arrivare a sapere chi fosse, ferma dove finiva la traccia del solco. Per un periodo ho ripensato spesso a quel sogno. In quelle sere ero la roccia: sentivo spuntarmi da tutto il corpo gli anemoni, che aprivano i petali al dolore, vibrando nell’aria della stanza. Mi sembrava di diventare più pesante, di sprofondare nel letto mentre gli anemoni si moltiplicavano a velocità incontrollata, mentre assorbivano il dolore, coscienziosi, senza lasciarne neanche una goccia, come quando nonno puliva con il dito l’ultima riga di olio nel piatto di ceramica e lo portava alle labbra. Dopo qualche minuto ero ricoperta di anemoni dalle caviglie al collo. Mi tenevano giù, mi impedivano di alzarmi. Quanti più erano, tanto più riuscivano a bere tutto il dolore, e quanto più dolore bevevano tanto più si moltiplicavano. Finivano per inchiodarmi così, al letto. Solo quando erano sazi si ritiravano lentamente, sembravano arrivati alla fine di un pranzo o di un’orgia.
Ma questo era molti anni fa. Adesso continuo a perdere il filo quando provo ad essere sincera, ma gli anemoni li colleziono in una teca. Li ho mostrati solo una volta a una persona, e non sono ancora riuscita a decifrare l’effetto e le conseguenze della mia scelta. Però quando guardo il fondo della tazza di tè e le foglie formano una figura familiare, il profilo di una montagna, il muso di un cane, una donna con una gonna lunga, non ho più paura e posso chiedere a mia madre: cosa significa, mamma?
È una frase che ho iniziato a dire tardi. Da bambina non facevo domande. Mia madre mi interrogava nascondendo sciattamente un’apprensione poco in linea con le sue inclinazioni meditative. A volte la sorprendevo guardarmi mentre girava una carta dei tarocchi. Sul tavolo scuro erano sparsi sacchetti di velluto, petali di fiori secchi, libri di Bernhard e un’agenda blu e triste, un tempo appartenuta a mio padre. Quando la vedevo scrutarmi e osservare meditabonda la carta estratta dal mazzo prescelto, sapevo che la stava contemplando per me, ma non riuscivo a incuriosirmi. Ero congelata in un perenne stato di atonia.
Mio nonno chiedeva a mia nonna: ma la creatura non si sente bene?, e mia nonna si stringeva nelle spalle, continuando a passare lo strofinaccio sui piatti o a sistemare il centrino sul tavolo.

Solo due cose, quando ero bambina, riuscivano a catturare la mia attenzione: le altre bimbe sulle ginocchia dei padri e i pesci viola sul fondo del lago.


Beatrice Morra è nata a Napoli nel 1996. Studia Storia dell’Arte e lavora nell’editoria.
Dorme poco, ma sogna parecchio e poi cerca epifanie nelle carte dei tarocchi.


L’illustrazione è di Luca Bruniera.

Serena Nadal

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Serena Nadal

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