Il grande lavoro di studio e ricerca sulla letteratura ispanoamericana portato avanti da oltre un decennio dalle Edizioni Arcoiris di Salerno ha prodotto un catalogo nutrito, che ha sfondato, ad oggi, il tetto dei duecento titoli e delle venti collane. Tra quelle di maggior interesse, c’è senza dubbio Caribe, che raccoglie le voci della narrativa dominicana. Voci come quelle – per prendere in esame alcuni esempi più recenti – di Kianny N. Antigua, Rey Andújar, Luis Reynaldo Pérez, Pedro Peix; tutte fortemente volute dall’editrice e traduttrice Barbara Flak Stizzoli e pubblicate nell’ultimo biennio.
L’aspetto a mio giudizio più interessante offerto da questi titoli – rispettivamente Bestiole, L’uomo triangolo, Infami e La tumbadora – sta nella profondità di cui sono portatori, in quanto si addentrano nei nuclei irriducibili dell’individuo a partire da un sintomo di superficie. Prendo infatti le distanze da quelle letture che, fermandosi agli aspetti più evidenti, vedono in Bestiole di Antigua, Infami di Pérez e L’uomo triangolo di Andújar un mero riflesso di una società violenta e corrotta. Aspetto, si intenda, ben presente, ma che di certo non esaurisce il discorso portato avanti da questi libri e dalla casa editrice.
Se si prende ad esempio “Remington 1875”, uno dei quindici racconti di Infami, non si può non individuare nel parricidio un’immagine simbolica più che letterale: per quanto il motivo della malavita costituisca il fil rouge della raccolta, non va dimenticato che la parola letteraria è tale in quanto costruita su delle biforcazioni. La domanda del lettore, perché sia una domanda pertinente, dev’essere allora tesa a cogliere la molteplicità simultanea delle immagini. Così, l’arma passata a mo’ di testimone di generazione in generazione non è semplicemente l’emblema di un radicato e inestirpabile male sociale. Dal momento che il figlio fa fuoco su suo padre, la rottura con il passato è evidente; e tuttavia l’esecuzione avviene con la tipica arma da Far West. Ecco che il passato – quello che tocca tre diversi secoli e che passa per il colonialismo e per la lotta per l’indipendenza, per l’occupazione militare dell’isola e per la dittatura di Trujillo – viene rigettato per essere risignificato.
E che il padre sia un elemento simbolico e non solo biologico viene chiarito anche da un altro racconto, stavolta ironico-polemico: “Il padrino”, portatore di numerosi rimandi agli Stati Uniti come modello di riferimento. Se di recente Agustín Conde De Boeck ha accostato la Scapigliatura italiana alla letteratura latinoamericana, non posso non pensare a uno dei testi fondativi del movimento anti-romantico: quel Preludio di Emilio Praga che recitava «Noi siamo i figli dei padri ammalati;/ aquile al tempo di mutar le piume,/ svolazzanti, attoniti, affamati,/ sull’agonia di un nume».
E del resto uno dei temi di Luis Reynaldo Pérez è proprio la memoria: come nel racconto “Croci”, in cui un sicario ha tatuate sul corpo tante croci quante sono le vite che ha reciso.
Come avviene in un altro grande scrittore dominicano, Marcio Veloz Maggiolo – se si pensa ai romanzi Riti di cabaret e La biografia diffusa di Sombra Castaneda – anche nei racconti di Pérez abbiamo incarnazioni provvisorie dell’orrore per dire il presente come il passato. Ecco allora che gli “infami” come Lo Squalo, Il Fantasma, Carlitos Scotch non sono che spettri, appunto; ma cosa succede quando nelle storie dei popoli si riflettono le chiusure malinconiche dell’autoaccusa? È possibile perdonare sé stessi, il proprio passato e le proprie colpe?
Parafrasando il Paul Ricoeurdi Ricordare, dimenticare e di La memoria, la storia, possiamo dire che la risposta alla domanda è negativa, perché il perdono non può avvenire entro i limiti della propria coscienza, in quanto presuppone la coscienza della vittima.
E che succede, invece, se la vittima e il carnefice sono la stessa persona? Come mostra Rey Andújar ne L’uomo triangolo, c’è a maggior ragione bisogno di un terzo elemento se ho ferito me stesso e devo perdonare me stesso. Le condotte del tenente Pérez, che certo passano anche per atti violenti estroflessi, non raggiungono tuttavia la portata della violenza autolesiva. Il vero violento, infatti, non “scarica” subito, ma è colui che temporalizza e progetta macchine in grado di potenziare la scarica.
L’uomo triangolo, Baraka, ha tre angoli e tre lati proprio perché concorre a compiere la triangolazione tra l’io offeso e l’io offensore che se ne stava paralizzata nella psiche del tenente fintantoché rimaneva uno scontro tra due elementi: il passato da perdonare e il presente che non vuole perdonare.
Anche qui abbiamo una vittima (l’io presente, ferito per colpa delle scelte dell’io del passato) e un carnefice (l’io del passato che ha generato, nelle sue chiusure, i blocchi dell’io presente). Solo grazie all’intervento di Baraka, l’io può arrivare e riconoscere che la sua storia non era la sua unica possibilità. In altri termini, l’io del presente può uscire dalla coazione a ripetere solo se torna a recuperare le possibilità che nel passato non si sono realizzate, ma che sono ancora lì, pronte per essere riprese e risignificate.
I titoli della collana Caribe, coi loro personaggi ai margini dalla società quando non del tutto banditi da essa, hanno anche i tratti del romanzo picaro, che trae la sua materia da un dolore storico profondo, quello del fallimento di una rinascita etica. In ciò, come la letteratura del rigetto della Germania post-bellica, abbiamo un rifiuto del moralismo quando non addirittura del vivere civile stesso.
Il realismo sucio o realismo sporco cui l’opera di Pedro Peix è associata, prende infatti forma sulla pagina contestualmente alle fantasie primitive, e la parabola di questa crisi compie un passo ulteriore attraverso i personaggi maschili e femminili della raccolta La tumbadora: la quindicenne Persia, ad esempio, che compare nei due racconti “Le signorine non sempre sanguinano nei motel” e “Fate la fila che ce n’è per tutte”, è una figura senza inconscio, svuotata come la Jeune-Fille, la ragazza-cadavere teorizzata alla fine degli anni Novanta dal collettivo francese Tiqqun. Semplificando la realtà e la cultura nel segno del bisogno primitivo, non significa altro se non sé stessa. La Jeune-Fille, cioè, mina la possibilità di pensare il mondo al di là dell’immediato, della pulsione istintuale e anzi della mera fisiologia. Incosciente di sé, del divenire e della morte, Persia non è altro da ciò che mostra, è mera estroflessione, è un’immagine plastificata che non fa segno e che non rimanda ad altro se non all’opacità psichica della comparazione: sempre (pre)disposta al coito ma psicologicamente frigida.
Simili a Persia sono per certi versi i protagonisti dei racconti di Kianny N. Antigua “Follower” e “Timberland” in quanto cercano la propria identità nel branding clanico e in una comunità surrogata e al servizio del capitalismo. E tuttavia la fascinazione che le scarpe Timberland esercitano su Yohanny sono soprattutto uno specchio del potere seduttivo straniero: come la giovane americana Lolita irretiva, in Nabokov, l’anziano britannico Humbert, qui abbiamo una Lolita dominicana («Quando avevo diciannove anni, quella giovane donna mi faceva sentire come un cane») parimenti attratta dall’America.
Ma, appunto, questo non è che un sintomo, perché, come accennavamo in apertura, il significato dei diciotto racconti di Bestiole – e il discorso vale per tutti i titoli della collana Caribe – è ben più profondo. Con la sua raccolta, Antigua sembra dirci che il diffondersi degli enunciati economici ha portato a una lingua depoliticizzante che sembra far ritorno a qualcosa di antico quanto la figura del pater familias, del responsabile del governo della casa (oikos) e, quindi, a quel responsabile dell’oikonomia che esercitava un potere e un controllo dispotico sui figli e in generale su tutti membri dell’oikos. Ha dunque ragione Hannah Arendt quando in Vita activa afferma che l’attuale dominio dell’economia non è che l’estensione mondiale del governo della casa: e dunque, con racconti come “Con un nodo in gola” e “Dietro la tenda”, Antigua non racconta solo di violenze fisiche e sessuali, ma di soggettività soverchiate, annichilite come soggetti politici a partire dalla dimensione domestica, presente fra l’altro, secondo diverse angolazioni, anche nei racconti “Topi” e “Trasloco”.
E quella che va dalla violenza alla casa non è una scansione da poco: se per Sartre commettere violenza significa innanzitutto inferiorizzare l’altro (riducendolo, se si vuole, a “bestiola”), la studiosa americana Elaine Scarry, nel saggio La sofferenza del corpo, ricorda che gli atti di proteggere, di recar beneficio, di darsi, impliciti nei termini ospite, ostello, ospedale e ospitale rimandano tutti a hospes, che a sua volta rimanda alla radice hos, che certamente significa casa, asilo o rifugio; e tuttavia, una volta risaliti a hos, si può mettere tra parentesi la connotazione di generosità di questo termine e ricondurlo alla radice di hostis, da cui derivano ostilità, ostaggio e ospite, inteso come l’ospite privato di ogni posizione, la vittima sacrificale.
Su questo punto, viene in mente che il racconto “Nella colonia penale” di Franz Kafka ha una gigantesca cucitrice come macchina di tortura, indicando il fatto che la decostruzione richiede sempre un ritorno al domestico, base di ogni costruzione, e quindi la sua mutilazione. E, sulla tortura psicologica e fisica, occorre aver presente due cose: che tortura è un derivato del latino tortum, participio passato del verbo torquere, contorcere; e che le rappresentazioni letterarie della tortura hanno di sovente a che fare con la dimensione domestica come con l’agonia, altro elemento del libro: «Per Luka la felicità si riassumeva nel prendere Tito a calci nelle costole e vederlo per terra contorcersi dal dolore» recita l’incipit di “Flash”, il racconto che apre la raccolta.
In conclusione, l’operazione di risignificazione portata avanti dalla narrativa dominicana e dalla collana Caribe di Edizioni Arcoiris passa, a mio giudizio, per il rigetto della società e finanche della morale perché solo in questo modo può verificarsi la riabilitazione di un’idea di finzione che diventi accesso al vero. Se da un lato la comprensione di un testo implica delle coordinate storiche e geografiche, nonché delle categorie psicologiche e linguistiche, filosofiche e artistiche, è anche vero che a un nucleo di verità (sulla politica e la società, certo, ma soprattutto su di sé e sulle proprie relazioni intrapsichiche e interpersonali) il lettore, anche il meno provvisto di adeguata strumentazione, può comunque accedere. Quel che accade con la narrativa d’invenzione, quantomeno nei suoi esempi degni di interesse analitico, è infatti simile alla rielaborazione di un’esperienza traumatica: piccoli shock, che passano per un certo concatenamento delle frasi e per l’identificazione con personaggi alle prese con dei conflitti che sollecitano una reazione che, per così dire, giunge sino ai nuclei fondamentali dell’individuo. Attraverso un confronto con protagonisti ed eventi rassicuranti perché fittizi, l’incontro con l’opera permette di “scaricare” o “sublimare” delle pulsioni reali. Ed è proprio questa, in fondo, una lezione della letteratura nei suoi casi esemplari.
Andrea Corona è editor e consulente editoriale. Dal 2012 a oggi ha curato oltre cento progetti editoriali per oltre cinquanta case editrici, collaborando con, tra gli altri, Gruppo editoriale Mauri Spagnol, Gruppo Laurana, Gruppo Rusconi Libri, Brassotti Agency & Associati.
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