Il tamburino – Barbara Cancian

Accendo il computer, la luce blu dello schermo si riflette sui miei occhiali di metallo con un bagliore radente. Il sistema gestionale si avvia con calma emettendo un leggero ronzio; intanto, il caffè del distributore inizia a rapprendersi sui bordi del bicchierino marrone in plastica e l’aroma vira verso il rancido. Lascio l’ultimo sorso freddo per dopo.
Scosto di poco la poltroncina girevole in ecopelle consumata dai vari colleghi che si sono avvicendati nel tempo e mi chino in avanti. Apro il secondo cassetto della scrivania, tiro fuori la biro blu e la matita, entrambe portano un’etichetta con il mio nome ben leggibile. Le  appoggio davanti a me, in linea con il vetro protettivo dello sportello che mi separa dal pubblico. Accanto alla penna e alla matita, preparo due caramelle alla liquirizia con la carta bianca e verde, una sopra e una sotto, ne ho un sacchetto pieno di scorta. Apro il terzo cassetto, scelgo i timbri in base alla frequenza del loro utilizzo, li dispongo in una fila ordinata dall’alto verso il basso: il timbro con il mio nome e la mia qualifica, con il pomello bianco avorio e la base in plastica verde scuro; il timbro autoinchiostrante con i riferimenti del mio ufficio, con meccanismo a doppio tempo azionato dalla pressione della mano; il timbro delle autenticazioni, grande, solenne, tradizionale, in legno di faggio verniciato, con la piastra in caucciù rosso scuro, avrà almeno trent’anni e deve essere usato con estrema decisione; il timbro delle certificazioni è un po’ più piccolo, in legno scuro; il timbro datario, invece, lo metto di lato perché lo devo trovare subito quando mi serve: giro con la punta del pollice e dell’indice la rotellina per aggiornarlo alla data di oggi, sento lo scatto, poi lo provo in un foglio bianco, come ogni mattina, per essere sicuro che le cifre siano allineate; sistemo il tampone dell’inchiostro, nella sua scatola di latta grigia, leggermente accartocciata dall’uso. Per finire, dispongo davanti a me anche la pinzatrice e una barretta di graffette.
Controllo il timbro a secco di metallo blu, rilascia un’impressione tridimensionale senza inchiostro su documenti e certificati speciali, lo posiziono sul ripiano in un punto equidistante tra la mia scrivania e quella del collega dello sportello accanto al mio. È l’unico strumento che condividiamo.
Ora posso mettermi in postazione, mi siedo e faccio un giro su me stesso, mi spingo, poi, con le gambe e sposto la poltroncina cigolante davanti al computer, quindi, inserisco le mie credenziali digitandole sui tasti in rilievo della tastiera.
Do un’ultima occhiata attorno a me, lo spazio di lavoro è perfetto, la scrivania ha il rassicurante aspetto di una scacchiera, il mio armamentario è pronto per accogliere e fronteggiare l’entropia portata dai cittadini.


Le porte si aprono, li vedo arrivare in un turbine. La prima cartellina della mattina, in plastica giallo fluo, si posa sul ripiano dello sportello dando il via al susseguirsi di molte altre cartelline dai colori più disparati, blu, rosso, viola. Una borsa strabordante mezza aperta preme sul vetro protettivo, al suo interno scorgo il contenuto privato in totale disordine: fazzoletti usati, la bustina azzurro brillante di un assorbente, un portafoglio in pelle marrone, un portaocchiali aperto, un’agendina con le pagine ondulate. Dopo di questa ce ne sono molte altre, aperte, chiuse, grandi, piccole. Un mazzo di chiavi cade a terra provocando un improvviso rumore di ferraglia. Alcune graffette dimenticate precipitano dalla mia parte della barricata, con una rapida mossa le getto nel cestino sotto la scrivania. Mangio l’ennesima caramella della giornata, appallottolo la carta con le dita e la infilo in tasca insieme al piccolo arsenale di palline accumulate in queste ore, ne posiziono subito un’altra al suo posto. Mani sudate sporgono dal divisorio e appiccicano i documenti da certificare e firmare: imprimo con un tonfo sordo il timbro delle autentificazioni, le mani si ritraggono. La stampante lavora incessante creando un tappeto sonoro grigio e monotono. Un pesante fascicolo di autocertificazioni con una grossa macchia di caffè ormai asciutta scivola verso di me, seguito da una carta di identità cartacea vecchio tipo. Un cellulare squilla all’improvviso con una suoneria assordante, altri cellulari vibrano attorno. Il ritmo dei miei timbri sui documenti impartisce la cadenza, come un tamburino in battaglia guido con il ritmo le richieste incalzanti delle persone. Mi scorrono davanti fotocopie sbiadite, post-it, pellicole trasparenti, insieme a giubbotti, occhiali da sole, braccialetti dorati. I foglietti stropicciati con il numero del turno hanno riempito il loro contenitore e sono sparsi tutto attorno.
Lavoro con ordine fino all’ultimo documento, fino a quando le porte vengono richiuse. Il caos viene risucchiato fuori, ora, posso riporre uno a uno tutti i miei strumenti.


Barbara Cancian ha vissuto alcuni anni in Francia e in Spagna, oggi vive in Italia e guarda con interesse l’Estremo Oriente. Inquieta comunque e dovunque, da sempre ama le parole, per vivere fa la traduttrice tecnica.


L’illustrazione è di Ermanno Funari.

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