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Cos’è successo all’horror italiano?

VIAGGIO NEL CINEMA DI GENERE ITALIANO DI OGGI


Di tanto in tanto, compare una nuova classifica dei film horror migliori di sempre, dove a noi italiani è riservato sempre qualche posto d’onore. È dagli anni Sessanta che maestri come Mario Bava e Dario Argento (ma anche Ruggero Deodato e Lucio Fulci) consentono all’Italia di qualificarsi in ogni articolo che proclami the best horror movies ever made. Appena pochi mesi fa, la rivista Rolling Stone inseriva ben cinque titoli italiani in una graduatoria di questo tipo, dove sorprendentemente Profondo rosso compariva più in alto di Suspiria. Sostanzialmente, è da allora che campiamo di rendita, un po’ come per le classifiche senza limitazioni di genere in cui è difficile trovare un italiano che non sia Pietro Germi, Vittorio De Sica e Federico Fellini. Ma se il cinema impegnato, storico, drammatico o sociale è andato avanti, riuscendo comunque a guadagnarsi notorietà e riconoscimenti internazionali nel corso degli anni – l’ultima nomination agli Oscar per l’Italia è di appena un anno fa – per il cinema horror, invece, la sensazione è che dopo una stagione di grandi fasti sia precipitato nell’oblio. Che non abbia prodotto più nulla di rilevante. Peggio ancora, che abbiamo smesso di produrlo del tutto.

In verità, c’è un’enorme discrepanza tra ciò che crediamo di sapere sul cinema italiano contemporaneo e lo stato reale del nostro cinema. Esiste, infatti, un nutrito sottobosco che vive ai margini dell’industria cinematografica e che fatica a emergere in superficie: di tanto in tanto, qualcuno riesce a salire a galla, per poi a volte affogare di nuovo dopo un paio di bracciate. Dove sta, allora, il punto di rottura, che segna uno spartiacque tra quella grande stagione e la situazione attuale? Dov’è che si è interrotto qualcosa? Scriveva Gian Piero Brunetta, nella sua Guida alla storia del cinema italiano del 2003, che il nostro cinema «non è più amato dal suo pubblico naturale e nessun segno d’inversione si è manifestato in questi ultimi tempi. […] prima ancora di affrontare il grande pubblico straniero, negli ultimi anni e sempre più drammaticamente il cinema italiano ha avuto il problema di risultare straniero, invisibile e sconosciuto in casa propria». Straniero, invisibile e sconosciuto: sembra la definizione più appropriata per il nostro horror di oggi. Certo, Brunetta si riferisce allo stato di salute del cinema in generale, ma individua perfettamente il problema e il tempo in cui esso ha origine.

«Il cinema è composto da tanti elementi, e il pubblico è uno di questi» ci dice Marcello Aguidara[1], giornalista e sceneggiatore, che alla domanda su dove sia finito quel pubblico che prima sosteneva il cinema di genere italiano risponde che le ragioni del suo allontanamento «andrebbero individuate in quel periodo che va dagli anni Ottanta ai primi Duemila». Si tratta, cioè, di quella fase che inizia con la scomparsa dei grandi maestri (Fulci, Mario Bava) o il diradarsi della loro attività (Argento, Lamberto Bava), segnando così la conclusione definitiva della golden age dell’horror italiano. E nel frattempo, in questo lungo trentennio, cos’è successo?

Suspiria di Dario Argento (1977)

È successo che «è mancata una generazione di ricambio», ovvero qualcuno che raccogliesse l’eredità della nostra cinematografia di genere e la portasse avanti, attraverso le dovute innovazioni e nuove lenti interpretative. È mancata, cioè, «una strategia continuativa, che facesse emergere grandi nomi come quelli del passato. C’è stato un vero e proprio buco produttivo durato diversi anni, dopo il quale, ovviamente, non abbiamo avuto più i talenti di prima. Non è solo una questione di registi e sceneggiatori, perché anche le maestranze vanno formate: l’horror richiede direttori della fotografia che sappiano ricreare le atmosfere adatte, montatori che abbiano senso del ritmo e della suspense… il talento, di base, può anche esserci, però poi va coltivato e supportato da un’industria».

La mancanza di un’industria, come vedremo più avanti, sembrerebbe essere proprio uno dei nodi più intricati da sciogliere. Intorno agli anni Duemila, qualcosa è cominciato a cambiare e la lunga crisi dell’horror italiano sembrava avviarsi verso un punto di svolta. Dopo un trentennio abbondante in cui i titoli interessanti si contavano davvero sulle dita di una mano, oggi si colgono da più parti i segnali di un miglioramento: generazioni di promettenti cineasti sempre più numerosi, film italiani esportati all’estero con buoni riscontri, amanti dell’horror che si stringono sui social in ragguardevoli comunità, festival dedicati al fantastico che sorgono in tutto il paese. E, non da meno, un aumento della produzione significativo se paragonato anche soltanto a dieci anni fa. Insomma, sembrerebbe che un po’ alla volta stiamo uscendo da quel circuito amatoriale in cui siamo stati a lungo relegati.

È interessante notare, come fa Silvia Moras[2], docente e storica del cinema, che «i segnali positivi sono legati sia alle produzioni che agli spettatori e ai festival. Il genere non solo sta riprendendo forza, ma sta ripartendo anche grazie al sostegno da parte del pubblico. La platea e lo schermo si stanno muovendo insieme», laddove per schermo non si intende soltanto l’approdo d’elezione dei lungometraggi, ma anche (e forse oggi soprattutto) la serialità televisiva e le piattaforme. «Si è creata anche una sinergia molto interessante tra i registi e gli attori degli anni Ottanta e Novanta e le generazioni di oggi, con i nuovi cineasti che si stanno cimentando nel genere». Ciononostante, queste generazioni giocano ancora da outsider nel sistema cinematografico italiano, operando ai margini in un paese che, aggiunge Moras, non sembra ancora aver trovato la volontà di credere nei generi.

Cannibal Holocaust di Ruggero Deodato (1980)

A conti fatti, in Italia sono davvero una manciata le produzioni coraggiose che investono nei generi. Quello di cui avremmo bisogno sono invece «delle realtà che si diano una precisa linea editoriale basata sulla produzione di film di genere, che siano così in grado di valutare adeguatamente le storie», afferma Domenico de Feudis[3], regista de Il legame. «Un produttore che non abbia familiarità con l’horror e decida di metterne uno in piedi, per quanto la sua iniziativa sia lodevole, difficilmente riuscirà a indirizzare il regista. Bisogna conoscere la materia. L’educazione ai generi riguarda anche autori e produttori».

Una delle tare che ci impedirebbero di tornare agli antichi splendori, pertanto, è proprio l’assenza di una classe di interlocutori che si siano formati nei generi, dagli scrittori agli editor, ai finanziatori pubblici e privati. Ne troviamo conferma nelle parole di Christian Bisceglia[4], regista e autore di Fairytale e Cruel Peter insieme ad Ascanio Malgarini. Quando si parla di maestranze, dunque, non si tratta soltanto di tecnici, ma di professionisti del settore tout court. «Noi mettiamo le nostre competenze al servizio di un sistema, ma sembra che non interessi a nessuno. Forse perché non esiste neanche un vero e proprio sistema. Il nostro è un cinema politico, che ha smesso di essere industria».

Difatti, il cinema italiano resiste quasi soltanto in virtù dei finanziamenti pubblici e statali, che vengono però convogliati esclusivamente verso i filoni della commedia e dei film d’autore, determinando un appiattimento su questi due versanti. E quando gli incassi non riescono a ricoprire le spese, come ormai accade sempre più spesso, quegli stessi finanziamenti intervengono ad assorbire le perdite, per cui sembra che non esista una logica che distingua tra vincitori e vinti. Ma allora, perché escludere da questo meccanismo i film di genere? Dov’è finita l’industria che dovrebbe sostenere e alimentare la produzione? Di questo, e di altro ancora, parleremo nel prossimo articolo.

Andrea Vitale

Fairytale di Christian Bisceglia e Ascanio Malgarini (2012)

[1] Marcello Aguidara è redattore di Nocturno, la principale rivista italiana dedicata al cinema di genere. Come si legge nella bio sul sito della rivista, è autore di sceneggiature per la tv e per il cinema e ha lavorato al montaggio di documentari, reportage e videoclip.

[2] Silvia Moras, docente e storica del cinema, ha lavorato nell’ambito di numerosi festival ed eventi cinematografici, è collezionista di locandine e materiali vari legati al cinema di genere italiano ed è consulente per il Museo Permanente del PAFF! di Pordenone.

[3] Domenico de Feudis è regista e autore de Il legame, film horror del 2020 scritto insieme a Davide Orsini e Daniele Cosci e distribuito da Netflix, dove è tuttora disponibile.

[4] Christian Bisceglia è regista e autore di due lungometraggi horror diretti insieme ad Ascanio Malgarini, Fairytale e Cruel Peter. Nella sua carriera, ha collezionato anche attività all’estero e in televisione.

Andrea Vitale

Andrea Vitale nasce a Napoli nel 1990. Frequenta il liceo classico A. Genovesi, e nel 2016 si laurea in Filologia moderna alla Federico II. Ama la musica e la nobile arte dei telefilm, ma il cinema è la sua vera passione. Qualunque cosa verrà in futuro, spera ci sia un film di mezzo. Magari, in giro per il mondo. Attualmente frequenta un Master in Cinema e Televisione.

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Andrea Vitale

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