Racconto: Un pomeriggio – L. Filippo Santaniello

Racconto Milleuno
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Mia madre è appena scesa dal treno e mentre le vado incontro la osservo alla ricerca di segni del suo approssimarsi ai settanta. L’occhio sinistro è avvizzito: s’è operata alla retina e non ci vede quasi più.

Ci abbracciamo.

È venuta a trovare un parente ricoverato al San Raffaele e riparte stasera. Mi spiace che debba rimettersi in viaggio tra poche ore, ma se restasse non me la sentirei di ospitarla nella casa in affitto a piazzale Corvetto, dove gli spacciatori attirano l’attenzione fischiando dagli androni dei palazzi e la mattina mi sveglio per il fumo dei cassonetti in fiamme e le barricate contro la polizia che sgombera gli appartamenti abusivi. Non voglio che mia madre veda la trascuratezza del condominio coi balconi sbocconcellati dall’umidità e le piastrelle crepate della mia stanza mal riscaldata davanti alla tangenziale di Milano.

Ieri sera, al telefono, mi ha fatto promettere che le avrei fatto vedere dove lavoro. Prendiamo la metro fino a Porta Genova e sulle scale mobili dice che se fosse venuto mio padre, col cavolo che sarebbe sceso sottoterra, e allora io mi ritrovo a pensare a che punto della mia vita i miei genitori smetteranno di esserci.

In via Michelangelo ci fermiamo davanti a un edificio in vetro e acciaio e dico a mia madre di guardare le finestre dell’ultimo piano.

«È lì che lavoro.»

Quando l’anno scorso chiamai casa e dissi che mi avevano assunto, mia madre scoppiò a piangere e dovette passare il telefono a mio padre, che pensò a una disgrazia.

«Nico’, che è successo?»

«Mi hanno preso» dissi.

«T’hanno preso sotto?»

«Il colloquio è andato bene, inizio domani.»

«Il colloquio? Quale colloquio?»

«Quello come copywriter, mi hanno fatto un contratto.»

«Signore, grazie…»

Sentii il rumore della forchetta sul piatto, la sedia contro il pavimento e lo vidi alzarsi da tavola, superare il mobiletto di Padre Pio e andare in camera da letto dove si sarebbe seduto sul bordo del materasso, le ginocchia appuntite sotto la tuta e le dita intorno al cordless che gli avevo regalato al posto del vecchio telefono quand’ero sceso per le feste. «Lo sapevo che ce la facevi» disse.

Raccontai del colloquio, dissi che mi avevano offerto uno stage di sei mesi. Mio padre non ebbe il tempo di commentare che mia madre tornò a impossessarsi del telefono. «Amore, che bello. Sono felice». Prese un respiro e nel rilasciarlo le scappò uno sfogo di lacrime e contentezza. Parlammo dell’affitto che sarebbe aumentato e quando disse di non preoccuparmi perché erano felici di darmi una mano, io risposi che me la sarei cavata da solo. Era chiaro che sarei rimasto a Milano.

Davanti agli uffici di via Michelangelo, mia madre mi chiede se a lavoro mi trovo bene. L’occhio sano è pieno di luce e non voglio che si annebbi come l’altro.

«Certo che mi trovo bene» dico, anche se lo stage era senza possibilità di assunzione e non ho trovato altro. In quel periodo ho capito due cose: passare otto ore al giorno davanti a un computer non è diverso dal lavorare in fabbrica come ha fatto mio padre, e soprattutto ho capito che sono in tempo per non diventare come quel collega che, da quando gli hanno fatto l’indeterminato, consulta le statistiche dell’Istat perché dice che sapere che ci sono tre milioni d’italiani senza lavoro lo aiuta a non desiderarne uno che lo soddisfi.

Mio cugino dorme nel letto del San Raffaele. Dopo essersi tolta sciarpa e cappotto, mia madre si accorge che l’acqua sul comodino è finita e mi chiede di comprarne dell’altra al bar dell’ospedale.

Sono alla cassa quando sento gridare: «L’hanno ammazzato di botte!»

Un giovane entra sorreggendo un altro ragazzo col sangue sulla fronte. Ha le sopracciglia rifinite e un foulard sgargiante intorno al collo. Due infermieri lo stendono su una barella e lo spingono oltre una porta opacizzata.

Poco tempo fa, passando davanti a un locale, ho visto un gruppo di uomini che menavano colpi alla cieca e quando se ne sono andati hanno lasciato un ragazzo in fin di vita sul marciapiede. Aveva le guance bruciate e per terra c’era una sigaretta accesa. Ho chiamato l’ambulanza e, mentre aspettavo, il ragazzo continuava a dire grazie.

«Grazie» diceva, coi denti rotti e sporchi di sangue.

Mia madre ha detto che l’ultima volta che ha visto il Duomo io ero un bambino. Fuori dalla metro però si vedono solo le guglie perché il resto della facciata è coperto dalle bandiere bianche e verdi dei manifestanti della Cisl. La folla ondeggia. Sugli striscioni c’è scritto “Per il sociale ogni giorno” e “Lavoro è democrazia” e io abbraccio mia madre e faccio attenzione che la gente non le vada addosso.

Davanti a un trancio di pizza in Galleria Vittorio Emanuele le chiedo se ha avuto notizie dei lavori per l’agibilità della casa. L’Entella è esondato due mesi fa portandosi via macchine ed entrando nelle case di tutti.

«I lavori sono stati finanziati, ma non sono partiti» dice mia madre. «Se non era per tuo zio finivamo per strada.»

Il treno dovrebbe partire alle 17:00, ma ha un ritardo di venticinque minuti. Ci sediamo sotto il tabellone degli orari e quando una rom col bambino al seno ci tende la mano, mia madre le dà un euro, poi mi guarda e aggiustandosi la sciarpa intorno al collo mi chiede cosa faccio stasera.

«Non lo so.»

«È sabato, non esci?»

«Forse un giro lo faccio.»

Invece rimarrò a casa a inviare curriculum.

Restiamo in silenzio finché non compare il binario. Raggiungiamo il treno e ci salutiamo con un bacio. Mia madre mi prende la mano e guardandola come una cosa preziosa dice: «Voglio che stai bene.»

«Sto bene» dico.

La guardo negli occhi. Anche quello sano è socchiuso per la stanchezza.  

Ci rivedremo a Natale.

Aspetto che salga in carrozza e prenda posto accanto al finestrino e mentre il treno esce dalla stazione ripercorro il binario e scendo le scale della metro che arriva in un minuto con una folata d’aria fredda.


Filippo Santaniello è autore e sceneggiatore. Nato nel 1983, vive e lavora a Roma. Ha pubblicato storie per Nero Press, Delos Digital, Playboy, Cut-Up Publishing, Dunwich e altri ancora. Da sue sceneggiature sono nati cortometraggi di successo come Sarcophaga (8 milioni di visualizzazioni su YouTube) e lungometraggi distribuiti al cinema e home video come The Slider, con cui ha ottenuto una menzione d’onore ai California Film Awards, e Fade out, disponibile su Amazon Prime Video. Attualmente sta lavorando al suo primo romanzo.

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Grado Zero è una rivista culturale online, nata dall’incontro di menti giovani. Si occupa di cultura e contemporaneità, con particolare attenzione al mondo della letteratura e del cinema.

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