Quando, in una fresca mattina torinese, ricevo Sangue Rubato di Antonio Muñoz Molina, edito da Lindau e traduzione a cura di Monica Rita Bedana, il nome dell’autore ha in me lo stesso effetto che fa ritrovare una foto sbiadita di un tuo amico, per due ragioni: il primo motivo è legato al mio passato da ispanista pentito – in un’altra vita, prima di siglare un patto di sangue con la lingua tedesca, studiavo anche lo spagnolo; il secondo motivo è invece il più scontato di tutti: Molina è uno degli autori di lingua spagnola più influenti e conosciuti della letteratura contemporanea, quest’anno ospite al Salone del Libro di Torino.
Sul treno, complice un lungo viaggio di ritorno verso Napoli, mi tuffo rapido tra le pagine di questo libro del quale non so nulla, già invogliato dalla splendida copertina di Odilon Redon, L’Araignée [1]. Prima, però, il mio sguardo vola sul colofon – deformazione professionale – e confronto subito il titolo originale con quello tradotto: El miedo de los niños in spagnolo, Sangue rubato in italiano. A fine lettura, mi sono reso conto che sommando il titolo originale con quello tradotto si ottiene come risultato il contenuto del romanzo (o racconto lungo).
I protagonisti, i cugini Esteban e Bernardo, vivono in un’epoca in cui i bambini giocano ancora liberamente per strada. Uno dei due, Bernardo, è rimasto zoppo dopo un brutto caso di poliomielite, dunque Esteban deve stare sempre attento al cugino: già dall’inizio troviamo la dinamica di una persona che limita l’altra e che è consapevole di farlo. Ma il centro del racconto non è in realtà (solamente) il rapporto tra i due cugini: mentre giocano, ieri come oggi, ai bambini piace raccontare storie, in particolare storie che fanno paura. Il racconto si apre con una di queste storie, nella quale si può chiaramente riconoscere il punto d’incontro tra il titolo originale e quello tradotto:
Fu suo cugino Bernardo a dire a Esteban che erano tornati i tisici. […] Durante la ricreazione un compagno di un’altra classe, uno più grande, gliel’aveva detto, l’aveva visto con i propri occhi: in calle Pastores o in calle Narváez, mentre camminava sul marciapiede, era passato di fianco a un furgone fermo con il motore acceso e il guidatore, forestiero dall’accento, gli aveva domandato una cosa, se sapeva dirgli come arrivare alla fonderia. Lui stava per rispondergli, quando vide che dietro l’uomo, nella cabina del furgone, c’era una bottiglia di vetro grande come un bidone del latte piena di sangue. «Il sangue era rosso rosso e sopra aveva la schiuma – disse Bernardo, – come il latte appena munto». «E oltretutto il guidatore portava un camice bianco e uno di quegli specchietti rotondi che si sistemano sulla fronte i dottori con un elastico». «E allora sarà stato un dottore» mormorò Esteban all’orecchio del cugino. «Era un tisico – disse Bernardo. – Era molto pallido.»
Non notate un qualche tipo di familiarità con i racconti che sentivate da bambini per strada? Io ne avrò sentito mille di questi racconti, da bambino. A volte era quasi sempre lo stesso, ma se raccontato da una persona diversa o con qualche dettaglio diverso, alla mia percezione di bambino bastava per farlo sembrare un altro, e non potevi fare a meno di pensarci per tutto il tempo mentre pedalavi verso casa, ti ottenebrava la mente. Ciò è proprio quello che succede ai bambini di questo racconto, ma Molina sviluppa sapientemente il tutto portandolo a un livello superiore: uno dei due bambini, purtroppo, si troverà ad affrontare una delle cose peggiori che possa succedere a un bambino, una di quelle cose che ti spezza per sempre, un qualcosa di difficile da capire a quell’età: dunque, è più facile immaginare che sia stato un tisico a volerti rubare il sangue.
Consiglio di leggere questo racconto perché lo trovo un ottimo esempio di riuscita rielaborazione di uno dei momenti universali della nostra infanzia, ovvero il raccontarci storie che fanno paura, senza scadere mai nel biografismo (cosa che oggi accade spesso, ahimè, nella narrativa contemporanea). A rendere ancora più meritato il prezzo del biglietto, alla fine del romanzo, terminati questi incubi sanguinolenti, vi accompagnerà una “Nota dell’autore”, quell’accorgimento editoriale in più che io apprezzo sempre in un libro. In questo caso si tratta di una vera chicca, perché Molina ci narra della genesi della storia dei cugini Esteban e Bernardo: insomma, un racconto nel (e del) racconto.
[1] Immagine non scelta a caso, dato che in un articolo de El País si parla di un “ragno nelle ombre dell’infanzia”.
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