Primo passo: «Per me la letteratura è un modo di chiedersi: e se le cose fossero diverse da quelle che sono? E una componente centrale della questione è chiedermi: e se io fossi diversa da quella che sono?»
Ora, un passo indietro: chi è Zadie Smith? Dal punto di vista letterario, è a mio avviso una delle due più talentuose scrittrici ‘attive’ (se volete scoprire l’altra, la trovate qui). Per comprendere in parte il perché del suo talento, si può anche tralasciare in prima battuta i romanzi e sfogliare Feel Free (2018, Edizioni SUR, traduzione di Martina Testa), una raccolta di saggi che ci introducono nella sua visione del mondo e delle parole utilizzate per (ri)crearlo.
Nella sua molteplicità (quante persone sono un essere umano? …e se corrispondono a un ipotetico “x”, a quanto ammonterebbe ulteriormente la quantità totale prendendo in esame uno scrittore?) Zadie Smith offre innumerevoli spunti di riflessione e soffia via la polvere da quelle situazioni che crediamo pacifiche, ma che non sono mai tali. Le parole che utilizza nei suoi saggi sembrano voler lasciarci intendere che l’ovvietà negli/degli eventi esiste fino a quando non dedichiamo il tempo necessario per esaminarli.
Feel Free è un ricettacolo di illuminanti opinioni (dalla Brexit alle questioni di identità multirazziale, dalla filosofia alla famiglia…), ma l’intenzione di questo articolo è di soffermarsi su alcune tematiche proposte in “Creatività e rifiuto”, un testo non compreso nell’edizione originale del libro e letto in occasione del Festival delle Letterature (Roma, 2013).
Qui Zadie Smith sfoggia le sue capacità di scrittrice utilizzando le parole adatte per affrontare con eleganza e risolutezza la trasformazione – tutt’ora in corso – che interessa una figura in equilibrio tra truffa e genialità: il creativo.
In 12 pagine l’autrice riesce a districarsi tra le insidie dei preconcetti senza mostrare insicurezza (certo, mi piace pensare che questo suo intervento sia stato pubblicato con poche interferenze e correzioni ‘a posteriori’, ma anche se così non fosse: poco importa), analizzando come in quest’ultimo periodo la ricerca di un contenuto “originale” si sia modificata con la ricerca di un concetto trasformabile in brand. Il tutto al netto dei social che al momento della pubblicazione non erano ancora predominanti (esisteva un mondo prima di TikTok, dicono).
Considerare la propria creatività un marchio commerciale – o metterla al servizio di un marchio commerciale – significa incorporare nel processo creativo l’uniformità e il consenso di pubblico richiesti dai prodotti. Significa considerare sé stessi un prodotto. E i prodotti non possono rifiutare i propri acquirenti. Lo scopo di un prodotto non è altro che inserirsi senza soluzione di continuità nello stato di cose esistenti.
Sono stata educata all’idea che esiste un a tensione mortale fra la creatività e il mercato.
Zadie Smith, senza cadere in nostalgie ma accompagnandoci con la visione dall’alto tipica delle scrittrici che producono letteratura, avverte i lettori – e nel caso specifico di questo saggio, si riferisce ai suoi studenti di “scrittura creativa” – dell’ambiguità, del vuoto (creativo, appunto) che si porta appresso questa ricerca a tutti i costi di essere definiti, dagli altri, creativi.
A mio parere, un vero “Creativo” non dovrebbe accontentarsi di soddisfare una domanda preesistente, ma dovrebbe modificare la nostra idea di ciò che desideriamo. Un’opera d’arte forma il pubblico che le è necessario, crea un gusto per sé stessa.
Nell’analisi del malsano rapporto tra la creatività e la ricerca di consenso, la scrittrice ipotizza un futuro prossimo (non a caso cita gli attivisti di Anonymous) pronto a sostituire l’attuale industria culturale e mediatica con una nuova creatività, più propensa a considerare arte il rifiuto delle vigenti regole del gioco creativo.
Insomma, altro passo in avanti: “E se la cosa più creativa da fare in questo momento fosse rifiutare?”
Luca Pegoraro
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