Questa è la storia di due donne: la prima si chiama Almarina e ha pochissimi anni, i capelli rasati e un fratello che ha dovuto lasciare. È rinchiusa nel carcere sull’acqua, a Nisida, dove i detenuti non possono fare il bagno e il mare è solo uno sfondo. È giovanissima, come gli altri ragazzi, e viene dalla Romania. L’altra è un’insegnante di matematica, si chiama Elisabetta ed è rimasta vedova: ogni giorno cerca di andare avanti, ma il ricordo di suo marito la trascina indietro. Sono donne accomunate dal dolore e dalla perdita: Almarina è sospesa nel vuoto, ha bisogno di un adulto e di un futuro, mentre Elisabetta rimugina sul passato e si rifiuta di vivere spontaneamente. Il loro incontro, in un’aula del carcere di Nisida, è un piccolo miracolo: tra operazioni matematiche e fogli protocollo, nasce un legame raro, fatto di tenerezza e di complicità.
Scritto in maniera magistrale, Almarina è un’importante testimonianza sulla detenzione in Italia, soprattutto perché non si discosta dalla realtà e non la colora di compassione. Racconta il carcere così com’è, senza retorica, descrivendoci un luogo dove il tempo è dilatato e le pene da scontare, spesso, rubano gli anni più belli della gioventù.
Sulla copertina dell’Einaudi c’è una donna a pelo d’acqua, con un vestito rosa e le braccia spalancate: il mare la circonda ma non la sommerge, sta lì ferma e aspetta. È il simbolo di questa storia e della solitudine che racconta. Almarina è sola, con un nome così bello che contiene sia l’anima che il mare, eppure viene dai boschi e dalla neve dell’entroterra rumeno. Sua madre è morta, mentre il fratellino è stato dato in affidamento, e la ragazza ha un solo ricordo della vita di prima: una medaglietta che le ha regalato sua nonna e che ritrae la Madonna del Buon Consiglio. In carcere se ne sta rannicchiata, trattiene tutto il suo dolore senza lamentarsi: passerebbe inosservata, se non fosse per Elisabetta che – tra le tante storie dei propri alunni – sceglie la sua. L’insegnante legge gli archivi, scava nel passato e cerca di capire come aiutare la ragazza: scopre della fuga dai boschi della Romania, si immagina il tragitto in camion sulle montagne e le violenze che Almarina ha dovuto subire. Elisabetta si affeziona lentamente, anche se cuore e ragione non vanno d’accordo: si rassicura con i suoi monologhi, che la tengono distante dal dolore, ma le emozioni seguono un’altra traiettoria e la spingono verso la ragazza. C’è un passaggio nel quale lei immagina i ricordi di Almarina: mi è rimasto impresso e lo ripropongo. Sull’ultima frase, soprattutto, mi sono soffermata a lungo:
A metà strada, tra il polso e il gomito, c’era una fossa. Lì ho infilato un dito. Ci ho trovato il fango gelato, mezza faccia dentro, l’altra metà che segue con gli occhi un bambino che scappa su per la collina, e vederlo andare è dolce, è un pensiero bello che distrae dalle botte. L’altro pensiero è: quando mi alzo da qui scappo e non mi vedete più. C’è un camion, un tragitto su per le montagne, un po’ di neve che scende anche se è fine ottobre. C’è un tipo che ti fa capire che puoi viaggiare solo se glielo prendi in bocca, tanto i denti davanti sono rimasti nel fango come nella favola del drago. E se un giorno da ogni dente seminato si levasse, gigante, una donna?
Il carcere è uno spazio che rende monotone le giornate, soprattutto perché toglie le energie e le speranze: il detenuto, in alcuni casi, fa la spola tra la cella e il cortile, senza avere una propria routine. Per questo le attività, quando vengono realmente promosse e offerte ai detenuti, costituiscono un vero e proprio salvagente. Dai lavori manuali, alle rappresentazioni teatrali, sono molte le testimonianze di internati che traggono beneficio da queste occasioni: i laboratori diventano dei veri momenti di vita propria, che restituiscono la dignità al detenuto e lo fanno sentire vivo. Infatti, uno dei più grandi rischi del carcere, soprattutto nell’ambito femminile, è quello dell’infantilizzazione dell’adulto: deprivato di ogni responsabilità, e soprattutto del libero arbitrio, l’essere umano si sente inutile e infantile. Grazie alla scrittura, e ad altri generi artistici, il detenuto viene realmente aiutato, perché può esprimere sé stesso o parlare con chi è lontano; nei carceri minorili, a maggior ragione, c’è bisogno di mettere le cose su carta: gli internati sono giovanissimi e non possono vivere liberamente la propria adolescenza, che è ancora più dolorosa e confusa se limitata dalle sbarre. All’interno di Almarina, si leggono le testimonianze che sono state redatte dai ragazzi: nel 2017, Valeria Parrella è stata a Nisida e ha tenuto un corso di scrittura creativa, durante il quale i detenuti potevano esprimersi liberamente e raccontare qualcosa di sé. Nella maggior parte dei testi, il ricordo della famiglia è presente: si percepisce la malinconia di chi cresce senza un genitore o di chi ha vissuto momenti unici che non torneranno. Zero punteggiatura, in alcuni casi, ma un racconto bello e sincero. Tra i tanti, ce n’è uno che mi è rimasto impresso:
Io mi ricordo di mio padre che purtroppo è detenuto da 13 anni e io ne avevo 7 di anni andammo a mare con la barca c’era tutta la famiglia cioè mia mamma e i miei due fratelli passammo una giornata bellissima è l’unico ricordo che mi è rimasto impresso di mio padre siccome mi manca da tanto tempo poi il resto non ho ricordi perché ero piccolo ancora mi emoziono nel ricordarlo spero un giorno non lontano potremo ritornare a passare giornate come quelle. (M.P.)
Almarina è un romanzo costruito sulla differenza che accomuna tutte le testimonianze sul carcere: c’è sempre un dentro del detenuto, che è grigio e monotono, e un fuori di chi vive liberamente, senza alcuna pena da scontare. È un contrasto che stride, soprattutto per chi lavora all’interno dei penitenziari: si passa dal trambusto della città, che è Napoli in questo caso, a un luogo che è isolato e privo di piaceri. La distinzione non è solo geografica, poiché coinvolge tutta la sfera umana: Almarina non può sognare un futuro, come fanno le coetanee libere, non può decidere di passeggiare sul mare o di amare un ragazzo, ma deve limitarsi agli spazi chiusi del carcere. Da questi pensieri, che tormentano anche Elisabetta, nasce il vero riscatto: se qualcuno ha deciso che la ragazza dovrà finire in una parrocchia a lavorare, dopo essere stata rilasciata, l’insegnante ha invece fiutato i sogni di Almarina, che è innamorata delle piante e del profumo che rilasciano i fiori. Questa è la libertà che Elisabetta immagina per la ragazza, dopo averne chiesto l’affidamento:
Dico che ho visto la donna che sarebbe diventata perché era già tutto lì dentro, si stava preparando, stava tornando a nascere. Esterna a me, lontana dal suo passato, oltre la malattia dell’umanità che l’ha ferita, Almarina cammina su e giù per la metro fino all’università, fino al dipartimento di farmacia, con i mocassini sulle scale mobili, poi nelle aule, nei laboratori, tra compagne e compagni che di quello che c’era prima possono non sapere nulla. […] Saranno stati unguenti da farmacista o pozioni stregate, da dentro il corpo di Almarina in vincoli è uscita Almarina libera.
Rebecca Cicchetti
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