Con il romanzo Gli altri sono più felici, la scrittrice catalana Laura Freixas ci racconta una storia di inganni e apparenze. Nulla è ciò che sembra in questo romanzo, uscito in spagnolo nel 2011 e tradotto recentemente da Francesca Mantura e Alessanbdro Gianetti per Arkadia Editore.
La storia si inserisce in quel filone di cronache familiari tanto comune nel mondo ispanico ma, a differenza delle classiche saghe, qui è il punto di vista che rende l’opera da subito differente. Anzitutto perché si usa la seconda persona, tanto insolita come scelta narratologica quanto coinvolgente per il lettore, che non solo è chiamato a indovinare chi sia l’interlocutrice ma deve anche ricostruire le domande e le reazioni di quest’ultima. Man mano che le vicende si dipanano, il lettore viene messo a conoscenza dell’identità della narrataria, che poi è uno dei personaggi secondari. La tecnica di rivolgersi a un personaggio offre all’autrice la possibilità di creare molteplici situazioni di congegnata suspence.
In una Spagna franchista, dove alcune famiglie borghesucole si interessano a malapena di quello che fa il governo, una ragazza appena adolescente di nome Áurea viene catapultata in un ambiente vivace e contaminato dall’arte e dalla politica. La sua provincialissima origine, in cui si incrociano i geni dell’Andalusia con quelli della Mancia, entra presto in conflitto con una Catalogna più libera e ribelle nello spirito. Barcellona e la Costa Brava sono la fonte delle sue nuove meraviglie, ma anche dei suoi conflitti che in lei determineranno il resto della vita. Da un lato c’è questa ammirazione incondizionata, asimmetrica e inspiegabile verso Marina, una ragazza poco più grande di lei ma superiore anni luce in fascino e personalità, e dall’altra c’è un rapporto conflittuale con la famiglia, in particolare con la madre. Áurea tenterà di fuggire da chi vuole determinare con invadenza le sue scelte, e questa fuga la porterà persino in Inghilterra a un certo punto.
È a Barcellona che Áurea vede per la prima volta il mare: «Appena sveglia corsi ad aprire la finestra e finalmente potei vedere il mare. No, non riesco a spiegarmi meglio, tutto quello che potrei dire sarebbe sempre troppo poco. Con che cosa si può paragonare? Con un viaggio nello spazio? Voi che lo conoscete da sempre non potete capire. Era come se d’improvviso ci fosse l’infinito…». La scoperta del mare è foriera di tante altre scoperte: che esiste un modo diverso di relazionarsi ai propri genitori, che esistono l’arte e la passione, che bellezza e determinazione si sposano con il destino luminoso riservato a certi eletti. Anziché chiudersi in un’invidia da provinciale, il viaggio di Áurea dal cuore della Spagna a Barcellona si trasforma in un motivo di ammirazione che la spinge a imitare – seppure limitandosi per un’irragionevole modestia – i modelli di successo e libertà appena incontrati.
Nel romanzo di Laura Freixas si apprezza quell’aura un po’ cosmopolita che si oppone al provincialismo gretto, quel sentimento di apertura mentale che segna una possibilità di riscatto nelle vite di coloro che viaggiano ed entrano in contatto con altre culture. Già nella stessa penisola iberica si fa fatica a tenere insieme baschi e andalusi, catalani e castigliani; a questo si aggiunge la scoperta di qualcosa al di là dei confini nazionali, come l’Inghilterra, con la sua «gente rispettosa che non mette gli altri di fronte alla sofferenza altrui», e con «persone educate che non piangono in pubblico, che non ridono troppo forte, che non fanno domande troppo personali».
Il rifugiarsi al nord, il distaccarsi da tutto per capire il proprio paese («dall’Inghilterra vedevo tutto più chiaramente»), e il desiderio inspiegabile e di tornare comunque indietro in preda all’irrazionale nostalgia mi hanno fatto pensare a un’altra scrittrice spagnola, Lucía Etxebarría, che nel romanzo Beatriz e i corpi celesti raccontava di una giovane donna madrilena che decide di andare in Gran Bretagna per dare un nuovo senso alla propria vita. Il viaggio, dunque, è uno dei temi centrali, che va di pari passo con la voglia di esplorare ed esplorarsi, di raggiungere un punto lontano per guardare a ciò che si era dda una nuova prospettiva.
Per rispondere alla domanda che il titolo propone come affermazione, o per conoscere almeno il punto di vista della narratrice, bisogna attendere l’ultima pagina. A prescindere dalle opinioni dell’autrice, però, il valore del libro consiste nell’invito alla riflessione sul concetto stesso di felicità, e di come questo assuma forme diverse a seconda delle circostanze e dei punti di vista.
Giuseppe Raudino
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