Non si muore di notte

Il perno attorno al quale ruota Non si muore di notte, esordio di Vanina Zaccaria annunciato da alcuni componimenti apparsi nell’antologia Mare Nostro Quotidiano (curata da Giuseppe Vetromile, note critiche di Melania Panico, postfazione di Rita Pacilio, Scuderi, 2018) e ora pubblicato, dopo un animato iter editoriale, per i tipi di RPlibri (San Giorgio del Sannio, 2020), è il rapporto tra mito e storia, pensando al quale viene spontaneo tornare all’esperienza poetica di Cesare Pavese, che esercita indubbia funzione di modello in questa prima raccolta ufficiale: e non solo perché il respiro metrico di questi versi lunghi e ricchi di ritmemi anapestici e anfibrachici rimanda all’esperimento di Lavorare stanca («La mia patria si accascia, anch’essa mortale»; da C’è un vento…, p. 25), ma soprattutto per gli ampi spazi campestri entro i quali si rendiconta l’eredità del Novecento filtrata attraverso il privato dell’Io.

Dal Secolo breve a oggi

Zaccaria aveva già presentato testi con un simile procedimento di presa in carico della storia nella piccola silloge Il secolo breve(secondo posto Premio nazionale di poesia “Aoros-Valerio Castiello”, I edizione). L’epigrafe tratta da Verrà la morte e avrà i tuoi occhi denunciava l’ispiratore principale dei dodici capitoli di un’esperienza priva di fatti eccezionali o irripetibili, propri di grandi eventi che fanno piuttosto da sfondo ad azioni semplici e ricordi estremamente umili: «Ricordo ancora bene che la tua casa odorava di alloro / e di datteri lasciati in secco / sulla veranda battuta dal vento scartavamo i gusci / e aspettavamo che le spighe mettessero il grano» (La casa di pietra). La “grande Storia” emerge con violenza in momenti particolarmente significativi, come ad esempio nella chiusura in cui ritorna l’immagine cruda della guerra, ovvero della ferita più profonda del XX secolo, che stenta ancora a rimarginarsi. Ma anche rievocando i conflitti bellici, Zaccaria non indugia sui dettagli macabri. Non c’è sangue nei paesi distrutti, ma l’aridità delle cose consumate e lasciate morire: nell’Ascesa delle cose si leggeva che «la guerra consumò tutto, l’aratro, il secchio, le sale da ballo», mentre «il tempo fu il chiodo snello della crocifissione / immolò adolescenti biondi e cappelli di donne».

Quello stesso tempo implacabile apre Non si muore di notte: «Il deperimento delle cose / come una lebbra antica che passa e che rovina» (p. 7) fa da contraltare all’attesa di Zaccaria di un sogno che assume i connotati di altri personaggi, ancora di ispirazione pavesiana (come non pensare al cugino dei Mari del Sud leggendo dell’«uomo che aveva conosciuto il Pacifico / e visto muoversi donne flebili dietro le tende di Manila / sulla via tortuosa del commercio e della guerra»), ma che cede presto il passo a una Memoria «sguaiata e tiepida / come l’amore senza perdono» (ibidem).

Italia, Russia, Grecia

Oltre Pavese, svolgono un ruolo tutt’altro che liminare – e non limitato al campionario di riferimenti alla geografia ellenica – le letture del verso lungo neogreco di un Odysseus Elytis («Le potenze celesti ascendono con qualcosa preso dalla terra…»), al quale si deve peraltro l’epigrafe al Primo Ciclo del libro. E si profila inoltre, in questo insolito pantheon, la sagoma di Esenin, la di cui poesia non può non aver influenzato un’esperta slavista come Zaccaria. Il ‘cantore della vacca’ fa da modello per i passaggi in cui più netta si fa la presenza della campagna e del mondo agreste:

Ho nelle mani un tremore antico
è mio nonno nel giorno della mietitura
che mi passa la sua fatica
La campagna intera sulla fronte
si corruga
(Ho nelle mani…, p. 28)

E ancora eseniniane sono similitudini che avvicinano il verso al «raglio franco dell’asino» (Ci vorrebbe un’altra notte…, p. 30) o lo scalpitare «da cavallo zoppo» (Ho nelle mani…). Questo mondo contadino esiste come portato della memoria, per quanto ben nitido dei suoi spazi e oggetti caratteristici, al punto da poter fungere da termine di paragone: «Tutta piegata eri, come la casa di mattoni / Quando la terra si scuote / E il piccolo campanile si disorienta» (Tutta genuflessa eri…, p. 27). O si veda, per un’accezione persino erotica, questa metafora che chiude Ti ho visto prima che arrivassi…: «Tu sei il braciere / e io il marrone / che si frantuma nella scorza» (p. 32).

«È sempre la stessa cosa la guerra»

Campi, pagliai, pianure; il mondo agreste è uno dei tronchi saldi dell’immaginario di Zaccaria, ma non è l’unico, ed è anzi la commistione con l’altra grande fonte d’ispirazione a suggerire quale dissonanza stia a cuore all’autrice. Spesso riemergono figure del mito e della cultura greca, ma Zaccaria afferma con forza l’appartenenza del mondo antico che anima la sua poesia a un piano storico più grande, se «perfino il cane trova posto nella storia» come si legge in Ho nelle mani… (p. 28), mentre il soggetto riconosce la sua insignificanza e, di fatto, la sua natura effimera a fronte dell’ineluttabile ‘procedere’ della natura che lo circonda: «Sono una cellula che si corrompe / mentre intorno questa valle irpina / procede in un lavoro onesto» (ibidem). Così, appena prima del cominciare del Secondo Ciclo, c’è tempo per una reinterpretazione del mondo odissiaco, non priva di suggestioni psicologiche:

Venimmo a decisioni feroci
e prima che il lume rivelasse il volto
seppi dell’occhio di Ciclope
che assumeva i tratti immondi della tua memoria
Fu l’uomo bruno figlio degli achei
a mostrarti fremente la costa
(Ti ho estratta a mani nude…, p. 20)

Anche le figure dell’epos, dunque, vengono ridimensionate a uomini in carne e ossa, delineati a matita più che incisi. Diventano anch’essi parte delle ‘storie minori’ che andrebbero rivalutate a fronte della guerra perenne, e anzi intrinseca all’esistenza, che contrassegna la vicenda umana. Così si apre e chiude È sempre la stessa cosa… (p. 29):

È sempre la stessa cosa la guerra
la stessa macchia di sangue rappreso
l’identico grido di quando nascesti (vv. 1-3)

Non badare alla tua guerra
al cinghiale ferito nella boscaglia,
trovati una storia minore
cercati un avvento discreto (vv. 10-13)

Poche pagine prima si incontra, presso una fossa che è già tomba da riempire, una figura che «sapeva a memoria tutta la storia / eppure attendeva il prodigio elementare» (Ti ho vista seduta…, p. 24). Ecco allora che nel cumulo di macerie, detriti e cadaveri macilenti che è la Storia ‘con la maiuscola’ si insinua un’altra dimensione temporale, quella degli individui, che subisce eppure si realizza nella prima. Zaccaria parla di una «mia storia sudicia di storia» (Ci vorrebbe un’altra notte…, p. 30): c’è coscienza della storicità del singolo, e questa mai viene messa da parte, ma l’attenzione è rivolta alla vicenda dell’Uno, anzi delle tante unità di mondo di cui si richiamano nomi ed esistenze.

Della memoria

Certo, non tutto ciò che è stato può essere recuperato:

Non avemmo l’agio
di rammendare il volto
che il tempo
come un vecchio scoiattolo
ci erose al pari di una noce
(p. 19)

Ma se, nella sua nota di lettura, Edoardo Sant’Elia può definire Non si muore di notte un «appello alla Memoria» (p. 41) privo di misticismi o arrese all’inerzia, è perché il ricordo non è adoperato come una formula magica, né si configura quale chiusura nel passato; appare piuttosto un tentativo di mettere a punto un canto corale di uomini, donne, creature e paesaggi tra loro in costante tensione. Ecco allora che la storia di Isidora, che si porta Lui «dentro come una nenia» e ne amò «i tratti / con la solitaria passione dell’uccello feroce / destinato al suo esilio di rupi» (Non esistono azzardi…, p. 8), echeggia nella figura di «Remedios la bella non era bella», che con affine similitudine bestiale «si rintana come il lupo / nell’estate boschiva, come quello / si accascia e si lamenta» (Remedios la bella…, p. 16); e ancora, l’inverno che «furioso si scaraventa sulle balconate» (Il deperimento delle cose…, p. 7) sembra essere lo stesso annunciato dall’«ombra tarda del passero / minuto sulle alte ferraglie» e che porta con sé scenari di desolazione e speranza (Non era il nibbio…, p. 13).

L’autrice

Il corpo del poeta

In quest’ottica, il corpo stesso del poeta diventa teatro della ‘sua’ storia. Il «tremore antico» nelle mani è quello di «mio nonno nel giorno della mietitura / che mi passa la sua fatica» (Ho nelle mani…, p. 28); nelle narici brucia «il fumo dei carbonari» (ibidem); fino allo splendido verso «Mi duole nel corpo tutta la mia razza» (Ci vorrebbe…, p. 30), che succede a tre versi su cui varrà la pena soffermarsi: «Resta ben poco oltre la nostra carne / un filo d’aria / noi uscio socchiuso». Alla Storia sudicia delle piccole storie degli uomini (per ribaltare il verso citato poco fa) non si consegnano imprese, ma carne: occhi, mani, schiene spezzate, piedi piagati, e al di là di questa eredità integralmente corporale che si manifesta nelle sensazioni di chi viene dopo, non resta che la flebilità del nostro passaggio sulla terra.

«Questo tempo d’uomo / è concrezione di memorie» (Questo tempo d’uomo…, p. 34), scrive Vanina Zaccaria. La voce del singolo racchiude in sé famiglie, alberi genealogici e forse l’intero flusso del tempo, come in questo libro dove l’esperienza individuale si intreccia con la vicenda familiare – presente ed essenziale è la figura del padre – e allo stesso tempo con altre avventure, prossime o lontane. Nelle spirali concentriche del tempo si installa una parola che, tra vocazione narrativa e adesione alla materialità di un reale fatto di ruderi e sudore, riesce a dare voce, spesso ‘decentrandosi’ e cedendo loro spazio, alle vite che subiscono e rendono possibili i destini collettivi.

Giuseppe Andrea Liberti

Grado Zero è una rivista culturale online, nata dall’incontro di menti giovani. Si occupa di cultura e contemporaneità, con particolare attenzione al mondo della letteratura e del cinema.

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