La fine, tra Tarantino e i Peaky Blinders

Uno dei punti di forza dell’arte – in questo caso specifico, del cinema – è la possibilità di poter raccontare una storia verosimile nei modi più disparati. A volte particolari tecniche di ripresa affascinano lo spettatore al punto di contaminare le produzioni successive, anche a rischio di inflazionarne il virtuosismo originario. Per dire, oramai un film di azione privo di almeno una scena in bullet time à-la-Matrix è più raro di un monologo stringato di Woody Allen.

The end is the beginning is the end

Oltre alla tecnica di mise en scene, esistono modi di raccontare la storia o di ribaltare un finale che diventano veri e propri marchi di fabbrica, soprattutto se la vicenda si svolge durante un periodo storico ben riconoscibile e non distopico. La potenza del finale nei film di Quentin Tarantino – e soprattutto con Bastardi senza gloria e C’era una volta… a Hollywood – risiede non tanto nell’aver stravolto gli eventi storici, quanto nell’essere riuscita a trasportare l’aspettativa (per un periodo indefinibile, almeno fino a quando un prossimo evento cinematografico andrà a modificare le esigenze del pubblico) anche nei confronti dei finali di film o serie tv non prodotte dallo stesso Tarantino.

Shosanna Dreyfus che blocca le uscite e incendia il proprio cinema condannando così al rogo Hitler e una serie di gerarchi nazisti durante la proiezione di un film che doveva essere l’emblema della loro potenza, Cliff Booth che insieme alla pitbull Brenda e al lanciafiamme di Rick Dalton salvano involontariamente Sharon Tate dalla furia acida dei seguaci di Charles Manson: questi due finali iconici sono entrati di diritto nell’immaginario pop, sia per la riconoscibilità del regista sia per la catarsi del fuoco purificatore e simbolo di rinascita (ehi, chi ha detto «Khaleesi»?).

E quanto più una scena viola l’immaginario collettivo, tanto più risulta difficoltoso staccarsene, anche con film o serie in cui questi finali alternativi all’ordine delle cose risulterebbero forzati o maldestri. Eppure quando delle scene entrano a far parte della nostra cultura contemporanea semplicemente non possiamo evitare di sperare che i finali siano altrettanto ucronici o che comunque possano elevarsi ad araldi del “Poteva anche finire così”.

By order of the Peaky Blinders

In questa ottica permane un senso di amarezza (e forse era questo proprio l’intento dello script) dopo aver visto l’ultima stagione di Peaky Blinders, tra le migliori serie prodotte nell’era del post Breaking Bad.

Peaky Blinders è una serie (attualmente di cinque stagioni) ambientata a Birmingham a cavallo tra le due guerre mondiali. A cavallo non a caso, dato che le vicende narrate riguardano le scorribande della famiglia Shelby, una compagine specializzata inizialmente nel settore delle scommesse ippiche.

Il capo famiglia è Thomas Shelby, un reduce della prima guerra mondiale – i cui strascichi si manifestano con continui incubi e desiderio di oblio alcoolico – che vuole elevarsi dalla posizione di zingaro capoallibratore della città a personaggio con valenza politica. La sua sete di potere costringerà lui e la famiglia a scontrarsi con l’IRA, la mafia italo-americana, i Servizi Segreti e tutta una serie di criminali accecati dalla visibilità che gli Shelby vanno accumulando. Le prime quattro stagioni narrano principalmente la crescita professionale del capofamiglia; la quinta mostra il tempo che non solo scorre ma include la tensione di una futura guerra mondiale totalmente differente dalla precedente, una guerra che parte dall’ideologia di predominanza razziale più che dallo sforzo fisico di scavare trincee.

Trasfigurare la realtà

È proprio con gli ultimi episodi che la storia cessa di rappresentare un periodo post prima guerra mondiale e veste il presagio delle dittature che andranno realizzandosi in giro per l’Europa. Le puntate si susseguono con una crescente tensione e speranza che le trame machiavelliche di Thomas Shelby riescano a deviare il corso degli eventi, eliminando il male incombente. Si aspetta una svolta – “No, lui riuscirà a sventare la minaccia fascista!” – anche se col passare dei minuti gli eventi sembrano alludere al peggio, o meglio: a come si sono verificati nella realtà. L’”Effetto Tarantino” pare pervadere il finale della quinta serie dei Peaky Blinders con una vana speranza paragonabile alla rilettura di 1984 di Orwell (“No Winston, questa volta non cedere! Non tradire lei, non tradire te stesso! Adesso giro pagina e tutto andrà bene…”).

In attesa della prossima magia

Nella mancata svolta (ma sarà davvero così? Con la programmazione di due stagioni conclusive è plausibile che una deriva rispetto alla realtà della seconda guerra mondiale possa ancora avverarsi) risiede parte della magia cinematografica che continua a incantare e a rendere più sopportabile la realtà. I finali catartici di Tarantino e una serie come Peaky Blinders ci aiutano – e fortunatamente non sono che gocce nell’oceano dell’arte visiva – a mantenere viva la fiamma dell’aspettarsi l’inaspettato.

Qualcosa di altro accadrà. E le inquadrature architettate al millimetro che formano attivamente lo scheletro di Parasite potrebbero modificare la rappresentazione scenica delle produzioni che verranno. O forse no. È questo il bello: la critica traccia i solchi del ciò che dovrebbe essere, ma il cinema è arte, e l’arte come acqua impetuosa, semplicemente – e per fortuna – della critica se ne frega.

Luca Pegoraro

Editor e ideatore della linea editoriale Jeet Write Do. In attesa della frase perduta e di dare il la alla Ballata della Rivoluzione letteraria, gratto la superficie delle parole. Email: lucaskywriter@gmail.com

Lascia un commento

Torna su